360cfa21bb6e03147baed8aad6ea57a5Dopo la vittoria di Macron l’Europa degli oligarchi e degli altristi si illuse che per il progetto di unione ordo – neo – liberista il peggio fosse passato, nonostante che il 40 per cento dei francesi avesse votato di fatto contro questo modello e sarebbe stato il 50 per cento e passa senza l’irredimibile suicidio di una sinistra andata a votare per l’uomo della Rothschild. Anzi proprio questa pseudo resurrezione, dopo il colpo della Brexit, ha nutrito illusioni e paradossalmente ha spinto a premere l’acceleratore su un modello ormai ampiamente rifiutato. Poi c’è stata la grana della Catalogna (che rischia di allargarsi ai Paesi Baschi e all’Irlanda) , altra situazione nella quale l’Unione ha fallito non potendo privarsi del ruolo che il neo franchismo di Rajoy gioca nel tenere sotto schiaffo la Spagna e dopo ancora il colpo più grave: la sconfitta della Merkel, ovvero di uno dei pilastri della Ue in salsa reazionario – mercatista e l’affermarsi persino in Germania, ossia nel Paese che ha sfruttato al meglio l’unione continentale e la cosiddetta moneta unica,  di una forte corrente anti europeista.

Anche l’ottimismo in una ripresa che si è rivelata puramente figurativa e secondo tutte le previsioni è destinata a contrarsi a cominciare da quest’anno, non può incidere più di tanto visto che la ripresina non soltanto ha lasciato pressoché intatti i dati della disoccupazione, del calo salariale e della precarietà, ma secondo i dati di Merril Lynch lascia trasparire un aumento costante delle società i cui profitti non coprono i costi finanziari e un 5,1 per cento delle sofferenze bancarie sul complesso della raccolta. Così adesso il commissario Pierre Moscovici si dice “molto preoccupato” per l’Italia e per la possibilità che dalle elezioni esca una maggioranza euroscettica o che si affermino forze in grado di imporre una rappresentanza proporzionale e dunque più difficile da condizionare da parte dei poteri oligarchici in nome della governabilità.  Volesse il cielo, ma qui assistiamo a una battaglia su molti fronti e su molti piani: da una parte ci sono quelli il cui interesse è imporre la disuguaglianza sociale come base per la crescita, dall’altra c’è un continente che proprio in vista di questo obiettivo principale si è legato mani e piedi alla geopolitica Usa del caos e ora si sta accorgendo di aver preso il tram della politica estera, di rischiare l’esclusione  dal grosso dei cambiamenti del nuovo multipolarismo e di trovarsi a fare da truppa coloniale di un imperialismo Usa senza più ritegno.

Il tentativo di uscire  da questo cul de sac non è tuttavia più pensabile in termini collettivi per molti motivi, a cominciare dalla inconsulta espansione a est dell’Unione che ha creato una frattura di interessi per finire al venir meno di un sentimento collettivo, disprezzato se non temuto delle elites di comando, ma comunque necessario, quindi il tutto avviene attraverso una disgregazione silenziosa, eppure inarrestabile. E’ evidente che l’impresa militare italiana in Niger, con i suoi costi colossali per un Paese che poi lesina persino gli spiccioli ai pensionati, è del tutto priva di senso al di fuori di questa logica: i militari inviati laggiù non possono formalmente combattere, non possono colpire i trafficanti di esseri umani perché mancano accordi  in questo senso col Paese ospitante e per i medesimi motivi non potranno pattugliare i confini. Cosa ci fanno là oltre alla fantomatica opera di addestramento delle truppe nigerine? Nient’altro che appoggiare politicamente e finanziariamente  la missione militare francese Barkhane messa in piedi impedire sommovimenti pericolosi per l’estrazione dell’uranio di cui la Francia ha praticamente il monopolio nel Paese e in quelli confinanti.  Non ci vuole molto a capire che si tratta del seme di una sottoaggregazione europea che trova peraltro un esempio ancor più evidente in Germania dove i ministri, in un certo senso “liberati” dalla rozzezza di Trump non si fanno più scrupolo di evidenziare il conflitto di interessi nei confronti della politica estera Usa e preparano una maggiore autonomia del Paese e dell’area economica che essa coordina – in pratica la vecchia Mitteuropa – per difenderne prospettive e interessi specifici: cessazione dello stato conflittuale con la Russia e il raggiungimento di uno status privilegiato nel complesso della nuova via delle seta cinese.

In termini strettamente formali il riferimento alla Ue non manca mai, anche se non vi è alcun aggancio diretto con gli atti formali dell’Unione, tuttavia è abbastanza evidente che ci si trova di fronte a una sorta di fratturazione di interessi dovuto al coagularsi di condizioni e all’emergere di contraddizioni nel modello europeo: da una parte l’ascesa di Trump con le sue difficoltà interne, ma anche con la sua aggressività non più mascherata da diplomatismi come in precedenza, dall’altra il timore delle elites di comando di trovarsi di fronte a un progressivo esaurimento della spinta propulsiva neoliberista, la deriva sempre più evidentemente degli stati dell’Est, che in realtà prendono ordini da Washington piuttosto che da Bruxelles, specie ora che i vantaggi dell’Unione stanno scomparendo. Tutto questo spinge a dare maggior spazio ai capitalismi nazionali, rafforzati dalle cure antisociali europee degli ultimi vent’anni, nella speranza che possano arginare il malcontento spostando il discorso, badate bene, sul nazionalismo piuttosto che sulla odiata sovranità, fonte dei diritti di cittadinanza. E’ esattamente il contrario di quanto dicono i cianciatori di professione, oltre che il risultato di un fallimento storico tra i più catastrofici dell’evo moderno. In ogni caso la disaggregazione è alle porte perché è nelle cose: nessuno si faccia trovare impreparato.