021Molte volte nei miei post compare l’aggettivo bottegaio in funzione dispregiativa e talvolta la parola mi rimane nella tastiera nel timore di offendere tutti quelli che si affannano in qualche commercio come se fossero portatori di un qualche peccato originale. In realtà non ho nulla contro i commercianti che svolgono il loro mestiere, anzi tanto di cappello, l’aggettivo si riferisce invece a una categoria di pensiero che in Italia ha radici più profonde che altrove e costituisce un retaggio storico, un tratto inevitabile dell’autobiografia della nazione: la tendenza irrefrenabile a considerare che il proprio interesse sia allo stesso tempo l’interesse di tutti. Presente nelle corporazioni medioevali, anzi derivato da quelle, è ancora perfettamente distinguibile nel berlusconismo e nei tratti peculiari con cui si è trasformato in aziendalismo d’accatto. Ricordiamo la famosa frase di Agnelli: cio che è bene per la Fiat è bene per l’Italia, che possiamo rileggere alla luce di come è andata a finire.

Così succede, tanto per fare un esempio pesante come un macigno, che un’azienda agroalimentare di Vicenza, la Brazzale che produce in Moravia una sorta di formaggio simil grana con la pretesa di farlo italiano, anzi con la scritta “caseificio italiano” (italaskà syrarna) se la prenda con la Coldiretti perché difende la territorialità delle materie prime come fattore essenziale per fregiarsi del tutolo made in Italy. L’argomento principe che essa adotta, in compagnia di gente che i campi li ha visti solo in cartolina, è che anche le aziende basate sul territorio sono costrette a importare grano o latte dalla Germania e così via, mentre ciò che conta non è la provenienza della materia prima, ma il “saper fare”, il risultato nella trasformazione “che è tale solo perché delle persone ci mettono decenni di esperienza, di gusto, di creatività. Tutte caratteristiche che non trovi in altre parti del mondo”. Insomma la solita retorica utilizzata in questo caso per gli interessi delle grandi aziende dell’alimentazione che vogliono industrializzare e omologare tutto: perché è evidente che la sapienza si accompagna anche agli elementi che vengono lavorati a loro volta frutto di culture e condizioni storiche, ma mentre la prima si può acquisire in poco tempo, la seconda una volta perduta non si ricostituisce più. Sappiamo bene, per esempio, che il latte della stesa mucca è diverso a seconda che sia munta di mattina o al pomeriggio, per non  parlare ovviamente della razza, degli incroci, della terra di pascolo, dell’alimentazione in generale e del clima figurarsi se un latte magari buono, ma anonimo e utilizzato dopo giorni di viaggio potrà mai dare lo stesso risultato. Ho abbastanza anni per ricordare che la mozzarella e la pasta che mangiamo oggi, sono ben lontane da quelle che assaggiavo da bambino, anzi non hanno proprio nulla a che vedere: anche nei casi delle piccole produzioni siamo sempre di fronte a prodotti più o meno tendenti a uno standard.

Ora se bisogna arrendersi di fronte al fatto che il territorio italiano è troppo ristretto per poter fornire materie prime sufficienti a coprire i consumi interni di prodotti tradizionale, pasta, pane, olio e via dicendo, che le regole europee costruite per favorire altri ne riducono ulteriormente le potenzialità,  se bisogna ricorrere a qualche compromesso non vuol affatto dire che si debbano sfornare prodotti anonimi la cui produzione è destinata proprio per questo a diffondersi anche altrove: è difficile fare una buona mozzarella, ma una pessima è realizzabile ovunque. In Francia hanno capito bene il legame col territorio e almeno quello lo difendono come un patrimonio che alla fine porta immagine e soldi in cassa, mentre noi che abbiamo mille prodotti più o meno di nicchia da sviluppare, difendere, migliorare ci stiamo svendendo nel nome di un’idea piuttosto assurda di un gigantismo che alla finisce per schiacciare tutto, porta all’estero i capitali e i consigli di amministrazione, taglia il personale dotato di quella “sapienza” che viene esaltata proprio per favorire i processi di delocalizzazione e disgregazione. Alla fine gli italiani stessi finiranno per mangiare secondo gusti altrui o meglio gusti standardizzati. Ora senza le pantomime un po’ assurde dei chilometri zero o le fumisterie un po’ patetiche e furbesche del territorialismo metafisico o ancora l’inganno sostanziale delle sedicenti piccole produzioni che fanno parte dell’industria illusionistica alla Eataly per intenderci, è chiaro che la banalizzazione e globalizzazione del prodotto è proprio quello che ucciderà la nostra agricoltura, dopo aver ucciso il cinema, la letteratura, la cultura. il gusto mentre invece si cominciano a vedere tutti i segnali di una riappropriazione delle differenze al tramonto dell’orgia globalista: se il Gran Moravia della Brazzale dimostra che un grana qualunque lo si può fare dovunque e ciò che conta alla fine è l’aziendalismo dei profitti . Se poi dicono che il grana moravo è migliore di quello che facevano in Veneto, con la scusa della filiera ecosostenbile vuol semplicemente dire che in patria lavoravano talmente al risparmio per alzare i profitti da deprimere un prodotto. Eccolo il pensiero bottegaio all’opera,