Comincio con le parole più importanti, ovvero quelle che hanno segnato una generazione e la prima tra queste c’è certamente sogno. Quando ero giovane aveva molti significati oltre a quelli inerenti l’attività onirica, ma essi erano quasi sempre riferiti a fantasie, speranze illusorie, irreali o effimere: il sogno era tale proprio perché conteneva in sé l’irrealizzabilità. Nessuno “sognava” una qualche meta concreta ancorché fosse difficilissima da raggiungere e fuori portata del soggetto: si progettava, di pensava, si voleva, si programmava, si aspirava e si ambiva a, si lottava per, al limite si sperava, ma quanto a sognare si poteva solo con la vincita al totocalcio o con i castelli in aria. Ma l’egemonia liberista che man mano cominciava a fare presa aveva bisogno di elementi simbolici che non fossero collegati alle effettive possibilità di raggiungimento di mete specifiche, specie nell’ambito della rivalutazione assoluta del profitto da capitale e della conseguente svalutazione e precarizzazione del lavoro che rapinano a mano armata il futuro; ci voleva qualcosa che che potesse conciliare in una sintesi desiderante il confort borghese e la condizione proletaria, lo sfruttamento senza freni e poi lo sballo apparentemente interclassista volto a simulare le icone dello star system o semplicemente i ricchi, quelli che ce l’hanno fatta. A questo punto era bene che nessuno progettasse davvero la propria vita, che magari si laureasse e avesse la pretesa di mettere a frutto gli studi, che si aspettasse una carriera ormai riservata alle elites, che facesse valere vere competenze. E in questo ambito è venuta buona la parola sogno: essa si adatta benissimo a sfrenate ambizioni, così come a diventare , cameriere o sguattero. Progetti e propositi sono cosa antica: adesso l’imperativo è che bisogna inseguire i propri sogni e magari sognare ciò che viene suggerito da tutta l’orribile chincaglieria industriale dentro la quale si nasce e si cresce per poi alimentarla con il proprio niente da dire perché attorno non c’è proprio nulla che possa cambiare la nostra visione del mondo o magari qualcosa che ci facesse consapevoli di averne una da consumatori compulsivi e basta.
Perciò sogno ha inglobato e ucciso ogni altro vocabolo delle aspirazioni perché tutto è ormai lotteria, cabala, leggenda metropolitana che viene diffusa a piene mani, come la vecchia leggenda dei garage in cui sarebbe nata l’informatica, senza dire che tutti i suoi protagonisti nascevano da famiglie straricche oppure l’attuale terra promessa costituita dai talent: è la parola adatta per tenere insieme la contraddizione tra l’identità che viene imposta dall’esterno ai ceti popolari e medi e l’impossibilità di raggiungere le condizioni materiali per realizzarla. Tutto poi viene tumulato grazie alla malta dell’eccentricità e del dilettantismo, scambiata per creatività. Insomma la parola sogno è perfetta per l’industria onirica che spaccia grandi segmenti di mercato per emancipazione. Dal che si direbbe che l’unico modo per sognare in grande è proprio quello di non sognare e di svegliarsi,