104466932-PE_Color.240x240Quando Donald Trump divenne lo sfidante ufficiale di Hillary Clinton feci subito il tifo per lui, un po’ perché mi pareva il rappresentante di un capitalismo meno finanziarizzato, un po’ perché rompeva le uova nel paniere di un asse di potere che sembrava essersi fossilizzato e molto perché la rozzezza dell’uomo avrebbe inevitabilmente mostrato l’America nelle sue reali fattezze e priva del belletto dell’ipocrisia di cui si era ammantata persino durante l’era Bush. E’ passsato meno di un anno dall’effettiva  salita al trono e quasi tutto si è realizzato: con la vicenda di Gerusalemme capitale di Israele tutta l’ambiguità statunitense che permetteva a Washington di apparire come un interlocutore credibile nella vicenda palestinese e mediorientale in genere o quanto meno consentiva agli alleati di fingere di credervi. Adesso gli Usa sono amici di Israele come sempre, ma sono inaspettatamente nemici dei palestinesi contraddicendo il consenso internazionale costruito su Gerusalemme, nel corso di decenni.

E così c’è stata una dissociazione planetaria dalle mosse americane che possono essere seguite solo dai regimi che dipendono direttamente e interamente da Washington, tipo quello del Guatemala, ovvero i negri del XXI° secolo, cosa che è anche peggiore perché chiarisce ulteriormente le cose anche in altre aree. Poco importa che Trump abbia scelto l’alleanza di ferro con la potente lobby filo israeliana Usa, non per particolati simpatie verso l’entità sionista, ma solo per ragioni interne, ovvero per resistere alle pressioni che vengono dal deep state e che rischiano di disarcionarlo anzitempo: tutto questo è comunque uno spaccato dell’America, una radiografia dell’impero e fa sapere a tutti che la politica estera americana non solo è ostaggio delle camarille interne, ma anche inevitabilmente trascinata da una hybris che è ormai consustanziale al Paese non lascia spazi né ai nemici, né gli amici. Il fatto che l’amministrazione Trump abbia  cercato di evitare l’isolamento all’Onu su  Gerusalemme con volgari minacce di tagliare aiuti anche umanitari (peraltro ampiamenti ripagati con le rapine di risorse) ai Paesi che avessero votato per la risoluzione di condanna delle posizioni americane su Gerusalleme capitale di Israele, dimostrano plateamente quale sia il substrato della politica estera degli Usa. E adesso la vendetta con la sottrazione di 285 milioni di dollari alle Nazioni Uniti aggiunge un tratto delinquenziale al tutto. E dire che sotto Natale bisognerebbe essere più buoni, secondo gli infantili e stupidi canoni dell’egemonia valoriale americana.

Però in queste  condizioni è impossibile pretendere di coprire ogni nefandezza e ogni inconfessabile interesse con una presunta supremazia morale derivante da un altrettanto presunta eccezionalità e questo, anche se dal punto di vista pratico conta poco, da quello etico – politico cambia invece molto. Dimostrano che il tiranno planetario ha ormai del tutto rinunciato ad essere amato, cosa che non gli riesce più, avendo esaurito la forza propulsiva di un sistema che sta diventando demenziale, ma preferisce essere temuto. E crea anche una situazione in cui anche gli alleati più stretti saranno costretti a scegliere apertamente scelte ingiuste e persino contrarie ai loro interessi, senza più potersi nascondere dietro immaginarie posizioni arbitrali o al più collaterali. Insomma le torsioni sulle oligarchie alleate e sulla loro tenuta interna si faranno man mano più forti mentre Al Trump si dibatte alla Casa Bianca come un elefante in una cristalleria di credibilità che anche se formata da fondi di bottiglia, permetteva di giustificare  formalmente la risibile leggenda dell’ eccezionalità.Gli sono bastate poche mosse e gli Usa sono visibilmente sempre più isolati e non soltanto a livello diplomatico perché diventa sempre più forte la tentazione, anzi la necessità  di migrare verso un mondo multipolare. E ogni mossa per evitarlo non fa che accelerare il processo.