Del resto il nomignolo di Santa Claus è Nick che è anche quello del diavolo. Ma da qui è facile risalire a quell’ OH OH OH che mette i brividi: nelle rappresentazioni e nei giochi del basso medioevo era una sorta di invocazione e di avvertimento ogni volta che il diavolo entrava in scena. Uno studiosi di folclore e di mitologia, Phyllis Siefker, ha dedicato molto tempo alla questione e, in un saggio pubblicato nel 1997scrive: “Il fatto è che Santa Claus e Satana sono alter ego, fratelli, hanno la stessa origine. Superficialmente le due figure appaiono opposte, ma sotto la superficie condividono lo stesso gene”. A suo tempo nel saggio Le père Noël supplicié, Claude Levi – Strauss suppose da alcuni segnali (il vestito scarlatto, la barba bianca, l’anzianità il nome stesso di babbo che Santa Claus acquisisce in molte culture che fosse una sorta di incarnazione della divinità. Ma egli fu illuminato e in un certo senso depistato da un fatto di cronaca avvenuto 1951: davanti alla cattedrale di Digione alcuni fedeli, preoccupati dalla paganizzazione della festa natalizia avevano bruciato un simulacro di Babbo Natale che poi fu “risuscitato” in Municipio per iniziativa delle autorità comunali, e pensò che non si trattasse di un semplice fatto di cronaca, ma della concretizzazione di una figura divina la cui morte è necessaria per rigenerare il tempo cioè la vita. Un ciclo di cui in molte culture sono coinvolti i bambini in quanto non ancora facenti parte a pieno della comunità degli adulti e perciò dotati di poteri speciali che vengono meno proprio quando cessano di credere in questo sottofondo al tempo stesso numinoso e diabolico.
Di certo questi elementi sono alla base antropologica della festa, ma nel caso specifico
Non è certo facile affrontare le ragioni di tutto questo che per qualche verso sembra essere una caratteristica ad ampio spettro delle comunità umane e che sono state analizzate, nei più diversi modi, compreso quello climatico, ma se il Natale non è più la nascita di dio che diventa semmai pretesto, Santa Claus è diventato il modello universale sul quale far confluire le culture locali ed è in qualche modo un missionario, un evangelizzatore del capitalismo. Naturalmente, come sempre accade nel mondo contemporaneo, il lato oscuro di Babbo Natale è stato commercializzato sia pure per accenni e ormai le caratteristiche negative del vecchio o di chi li impersona sono al centro degli sforzi hollywoodiani, dei gadgets e delle clip art dal momento che i nuovi tratti portano soldi e profitti. Ma soprattutto Santa Claus è diventato il rappresentante monopolistico, il sovrano maligno e divino insieme dell’ipermerce, ovvero di quei prodotti il cui valore d’uso o utilità pratica è sovrastato dal valore simbolico propiziato dal marchio o dagli sponsor o anche dal semplice battage a tappeto e/o anche dal valore immaginativo e illusorio che contengono, anche se non servono a niente o a niente di più rispetto alle cose che li hanno preceduti. In questo senso le ipermerci non solo diventano il legame sociale principale e un sistema di rassicurazione, ma rappresentano sempre anche doni.
Quelli che appunto porta Babbo Natale il quale diventa l’educatore per eccellenza: siamo partiti dall’inesistente San Nicola per comprendere meglio Santa Claus e ci ritroviamo nel bel mezzo del mito del Cargo che risale alla Melanesia e immagina che una nave carica di beni, sia inviata infine dagli antenati per ricompensare le popolazioni della devozione profusa. Il vero problema è che non si tratta più di un rito di passaggio che riguarda i bambini: tutti ormai in un modo o nell’altro che se saranno buoni verranno premiati oppure saranno mangiati, non c’è più un’età massima per credere alla favole. E qualcuno nelle torri che si elevano qui e là nel mondo fa risuonare il suo sinistro OH OH OH.