leopoldaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Perfino la stampa fino a ieri sgangheratamente fiancheggiatrice comincia a nutrire dei dubbi sul successo di critica e di pubblico della kermesse leopoldina che si terrà a fine settimana, caratterizzata – narrano – dauna gioiosa e immaginifica improvvisazione. Ma che, sospettano,   nasconderebbe inquietanti defezioni e allarmanti diserzioni tra i fedelissimi, perfino tra gli “entristi” quelli che in passato ricorrevano a quella tribuna per costruire il loro blando profilo di  oppositori interni light preferendo tra mi si nota di più se non vado o se  vado, la seconda scelta,  e soprattutto tra i residui notabili, a cominciare da Gentiloni in visita pastorale per portare il verbo della “cooperazione umanitaria” in  Africa, da Orlando, da Emiliano.

Ma pare poco interessato ormai anche il capriccioso leader che, come accade agli adolescenti, si stufa presto dei giocattoli e che ha scelto il look di padre nobile consegnando giustamente sala e palcoscenico   ai nati negli anni ’90, che per maturità, preparazione, hobby e icone di riferimento  gli sono quelli più affini.

E che ha diramato i suoi messaggi da Parigi dove è stato ammesso benevolmente nella stanza e alla play station dell’amichetto più piccolo ma più influente che ha accettato di buon grado perfino il riconoscimento di quel “sale éntranger”  come quando  ragazzini che farebbero volentieri la lotta si spalleggiano davanti  a altre bande di piccoli teppisti.

Perché sono tali, bulli senza educazione e talento, quei populismi e estremismi che minacciano l’Europa unita  e contro i quali Macron ha incaricato Renzi – e il suo partito che ha registrato i noti successi plebiscitari, di fare  da  argine proprio come lui che in Francia, è riuscito a fermare l’onda lepenista arrivata alle porte dell’Eliseo.

La missione affidatagli non può che piacere al leader di un corpo autodefinitosi alla fondazione talmente “liquido” da potersi esonerare di mandato di rappresentanza, di tradizione, di cultura politica, di appartenenza e di identità da essere tutto e il contrario di tutto, trovando un unico terreno identitario solo nella propaganda contro un nemico. Propaganda, perché fin da quelle elezioni caratterizzate dalla rimozione perfino del nome dell’antagonista, si erano messe invece le premesse per accordi sottobanco, per la stipula di patti e il consolidamento di alleanze e maggioranze, cementate dall’adesione alla stessa ideologia e da una empatia che si manifesta e esprime con unità di pensiero e azione, con le stesse ambizioni e interessi di gruppo, si tratti del cavaliere, come perfino di Casa Pound con cui i sindaci Pd, padrino delle ius soli, marciano entusiasti e compatti contro l’indesiderata invasione, magari di 37 profughi come è accaduto a Spinetoli.

Adesso il nemico intorno al quale coagulare disperatamente consenso  e gradimento è il populismo che anche per ragioni linguistiche non piace, per via di quella radice molesta che non riguarda generi musicali ma un legame stretto con la massa, la plebe, la marmaglia irriconoscente e traditrice che non ha appoggiato il piccolo aspirante Bonaparte, che non vota i suoi fidi, che non si fida più delle sue promesse.

Eh si, il populismo, si dice, è sempre indicatore di un deficit di democrazia e di partecipazione. E non può non suscitare l’ostilità di chi la democrazia e la partecipazione le ha ridotte, consumate e derise, di chi ha la vocazione e la funzione di limitarle fino alla cancellazione in nome di altre irrinunciabili necessità: sopravvivenza, ordine pubblico.

È paradossale che lo combattano con le stesse parole. Con gli stessi atteggiamenti, con le stesse abitudini e gli stessi tic e con il continuo nutrimento a un sentiment  che trova il suo humus nel risentimento, nella sfiducia, nell’inimicizia, nel senso di perdita di beni, valori e aspettative che alimenta rancore e vittimismo. La verità è che sono populisti dall’alto, legittimati e sponsorizzati da regimi e autorità “superiori”, incaricati di contrastare populisti dal basso, quelli che cercano e votano magari una tantum soggetti che testimonino il loro malessere e la loro collera.

Lo si capisce scorrendo i commenti sotto le esternazioni e i cinguetti di Renzi, quando i suoi fan con espressioni dal tono e dal contenuto allarmante lo invitano a “non mollare”, a “fare piazza pulita” degli oppositori, a lasciare terra bruciata, secondo i registri e le modalità care alle curve sud e alle tifoserie delle tastiere. Perché si capisce che gli irriducibili ancora sul carro del vinto, specie nuova nel panorama italiano eccettuata qualche Petacci, sono sempre meno, individuabili in quel sottobosco di clientela fidelizzata con favori, piccoli incarichi, prebende, ma pure  grazie a incerti processi di adesione a messaggi dimenticati, traditi, oltraggiati.

Ormai non traiamo nemmeno più soddisfazione nel vedere le facce spaurite, i ghigni schiumanti di rabbia rancorosa, non sorridiamo nel prevedere gli spalti vuoti della vecchia stazione: ritroveremo il piacere di godere delle loro sconfitte quando saranno loro i vinti e il popolo il vincitore.