Anna Lombroso per il Simplicissimus

È improbabile che domineddio al fianco del giovane re cattolicissimo abbia voluto lapidare in Santa Croce il reprobo turista catalano in odor di secessione, o che abbia invece voluto salvare i pochi turisti tedeschi che vanno in pellegrinaggio alla romita chiesa del Domine Quo Vadis sull’Appia Antica dove un blocco di 10 chili staccatosi dalle stemma Barberini è precipitato a terra sul sagrato. Senza disegno divino ma per via di umana trascuratezza a Santa Croce, come a Pompei, piovono pietre e poi  pezzi di Lungarno  franano a Firenze, il sito archeologico di Sibari  si allaga, due chiese di Pisa sono chiude al culto per timore che si sgretolino sui fedeli,  il tempio greco di Caulonia   scivola verso mare, il muro di contenimento degli Orti Farnesiani sul Palatino si sbriciola, e non serve un tecnico per accertare la colpa di chi dopo il terremoto di agosto 2016 non solo non ha puntellato i monumenti, ma non ha fatto rimuovere e custodire altrove  il patrimonio mobile di capolavori di pittura, scultura e oreficeria sacrificati per incuria nella catastrofe artistica più grave  della storia della Repubblica.

E dire che a Pompei come a Firenze, a Roma come  nelle centinaia di siti che costituiscono quei “giacimenti” che dovrebbero dare lustro e ricchezza al Pase più bello del mondo, si sa bene cosa si dovrebbe fare e d è quello che si dovrebbe fare anche per tutelare il nostro territorio e il nostro paesaggio: non interventi di riparazione straordinaria e costosa quando si manifesta un’emergenza, bensì una conservazione programmata mediante il controllo dello stato di salute del nostro patrimonio e attraverso le necessarie, minime, puntuali e periodiche opere di manutenzione.

Naturalmente non è un caso che invece avvenga il contrario,  che invece si realizzi quella infausta combinazione di doloso abbandono con un disegno che è lo stesso perseguito in tutti i contesti dell’economia e della società: destituire uno Stato che si vuole inadempiente, esautorare soggetti competenti incaricati di sorveglianza e controllo, che si vogliono umiliati e avviliti quindi esposti a disaffezione e perfino corruzione. Perché è fin troppo evidente che si concretizza  definitivamente  con Renzi- Franceschini il disegno avviato dal duo Tremonti- Bondi inteso alla fine delle sovrintendenze ( la “parola più brutta del vocabolario” alla pari di costituzionalista e critica)  e  alla devoluzione di poteri e competenze ai sindaci e a chi di volta in volta anche  in forma di fotocopia si attribuisce il ruolo di  Sindaco d’Italia.

E come? dando il colpo di grazia alla tutela, operando un vero e proprio mobbing ai danni del personale tecnico-scientifico, smantellando e disarticolando gli archivi, chiudendo gli occhi e pure le orecchie sulle denunce di sottrazioni, furti e svendite, ma soprattutto indirizzando le risorse verso Grandi Eventi, verso Grandi Mostre,  verso grandi “attrattori turistici” peraltro offerti in comodato a sponsor generosi coi quattrini dello Stato, in ossequio a quella concezione di “valorizzazione” intesa come promozione e sfruttamento commerciale che si voleva addirittura introdurre nella Costituzione. O tagliando progressivamente  i fondi per la manutenzione ordinaria e straordinaria del Ministero dei beni culturali,  fino a giungere nel 2015 a meno di 13 milioni di euro (il 36% della programmazione totale); con un ridicolo incremento nel 2017  a 16 milioni (43% della programmazione totale), evidentemente inadeguato alle dimensioni del nostro patrimonio e alla sua fragilità, destinata a crescere via via che lo si abbandona a se stesso.

La privatizzazione dei beni comuni e del Paese passa anche da qui, da un esecutivo e da una classe politica che si sente obbligata a appagare appetiti insaziabili di potentati, lobby, imprese multinazionali, indebolendo l’apparato statale e la sovranità nazionale, mantenendo però inalterata la funzione di elemosiniere in soccorso di mecenati esosi, come è successo con i restauri del Colosseo quando il valorizzatore privato in veste di ciabattino è stato spalleggiato con un cospicuo contributo pubblico.

Per non dire del più muscolare e superdotato dei privati, la Chiesa che possiede e gestisce un patrimonio enorme (  circa 95.000/ 100 mila chiese, 3.000 biblioteche, circa 28.000 archivi parrocchiali e diocesani, terreni, immobili di pregio, conventi e monasteri, scuole “parificate”, strutture ricettive e canoniche antiche opportunamente trasformate in B&B,   beni privi di carattere sacro, di proprietà di Enti ed Istituzioni ecclesiastiche, beni di proprietà della Santa Sede, beni soggetti a vincolo di destinazione al culto, beni di interesse religioso di proprietà di Enti ed Istituzioni ecclesiastiche), ma non paga Imu e che governa i suoi beni in base a valori e   requisiti proprietari ma anche di culto e di evangelizzazione. Principio questo che vale anche per la loro conservazione e restauro: Santa Sede e Repubblica Italiana (successivamente Regioni e Comuni), nel rispettivo ordine, collaborano nella tutela del patrimonio storico ed artistico, al fine di armonizzare l’applicazione della legge italiana, con le esigenze di carattere religioso. Gli organi competenti delle due parti in ottemperanza dell’art.12  della revisione concordataria del 1984 sono tenute a cooperare  per la conservazione e la consultazione; ciò significa  però, e non sorprende, che la consultazione dipende dalla sola autorità ecclesiastica, la conservazione dipende invece sia da quella ecclesiastica sia da quella statale. Resta aperto dunque l’interrogativo: chi paga? Chi deve mettere i soldi per la tutela e il restauro dell’esistente a fronte della smania costruttiva che invece di sanare quello che c’è ha realizzato in 30 anni almeno 3 mila nuove chiese, mentre immobili destinati al culto e di qualità artistica elevata restano chiusi e abbandonati o in altri  si sospendono gli interventi di ripristino e messa in sicurezza per riaprire all’evangelizzazione e pure alla “valorizzazione” turistica.

È che, come è successo in S.Croce, non sempre il culto va d’accordo con la cultura. E mai quello che abbiamo permesso venisse prestato o ceduto torna nostro.