democrazia-pallacordaIl fatto che oggi vi sia una specie di referendum per l’autonomia in Lombardia e Veneto può essere una buona scusa per catturare due piccioni con una fava: da una parte prendere le distanze da atteggiamenti vecchi e ragioni mistificate portata avanti da elites pubbliche della mutua, classi dirigenti locali dal fiato corto, per non dire opache e bottegai senza futuro impegnati in partouze omopolitici per inseguire un reciproco tornaconto,  dall’altra comprendere le ragioni che hanno portato al declino della democrazia, alla sua messa in mora da parte di oligarchie che hanno occupato il vuoto incipiente di credibilità  che si stava formando e dunque in fin dei conti ad ogni più miserabile retorica di partecipazione organizzata dietro le quinte dai padroni del vapore o dai loro valvassini.

Il fatto è che in società sempre più complesse, attraversate da grandi cambiamenti tecnologici e di rapporti produttivi, dominate da relazioni mediatiche più che personali, da esperienze e rapporti indiretti non si può pensare che la democrazia rappresentativa possa essere governata dalle stesse regole pensate alla sua nascita: votare ogni cinque o quattro anni un numero ristrettissimo di individui e poi tacere qualunque cosa essi facciamo, dover scegliere in modo esclusivamente binario tra blocchi e parole d’ordine spaventosamente semplificate, è quanto di meno realmente partecipativo si possa pensare e alla fine riporta a una situazione ancien regime . Sarà banale dirlo, ma o la democrazia nasce dal basso, ovvero da un ambiente sociale che discute, si scontra, si misura e poi risale la scala delle competenze decisionali in ogni suo ambito, oppure non è. In anni passati si è pensato in alcuni Paesi, come l’Italia per esempio, di poter ampliare la rappresentanza creando fotocopie a vari livelli delle assemblee nazionali, la cui gestione devoluta ai partiti ne faceva nient’altro che una cinghia di trasmissione autoreferenziale e generando una rappresentatività illusoria, terreno di caccia per clan e interessi di ogni tipo, lobby locali, confusione e incertezza istituzionale, voto di scambio e dulcis in fundo corruzione.

Naturalmente la democrazia non ha bisogno solo di elettori, ha bisogno di elettori attenti e consapevoli, che prima di andare alle urne si siano confrontati con i problemi nelle varie istanze possibili e concrete, dal lavoro, alla scuola: la democrazia non regge come sistema di governo se non è un sistema di vita. E infatti via via, mentre si asseriva l’allargamento della partecipazione e si fabbricavano i più diversi sistemi elettorali le persone sono state emarginate dalle decisioni tanto che, per esempio, tutto il processo di costruzione europea è stato sottratto al voto popolare e quando in rari casi è accaduto le decisioni sono state cancellate, così come del resto è avvenuto e avviene per le questioni che concernono il lavoro o i beni comuni.

Ora come si può cambiare? Ci sono alcuni esempi a cui ci si può ispirare e sparsi per il mondo, magari in realtà particolari, ma non di meno in Paesi significativi. Innanzitutto introducendo l’obbligo di referendum per qualsiasi variazione costituzionale, per leggi che investano il privato delle persone o che devolvano sovranità e dunque parte della capacità decisionale dei cittadini. Un istituto che dovrebbe essere ampiamente utilizzato anche ai vari livelli, nelle Regioni e nei Comuni per i provvedimenti che interessano direttamente la vita delle persone come la scuola, i trasporti o la sanità: in questo modo diventerà anche difficile per gruppi di pressione e interesse servirsi della consultazione popolare in modo episodico, demagogico e strumentale come vediamo oggi. Né si deve pensare che questo finisca per affaticare gli elettori e allontanarli dalle urne, perché questo accade solo quando la gente si trova a pensare di non poter decidere nulla: uno studio dell’Ocse su quaranta Paesi ha messo in luce che il processo di coinvolgimento decisionale stimola una cultura dell’impegno e del dibattito. Infatti più sono i referendum più la partecipazione tende ad alzarsi e non il contrario.

Poi agendo sull’informazione, prendendo atto che siccome essa è uno strumento basilare per l’orientamento del mercato (parlo in termini economici, ma evidentemente con scopi più generali) essa non può essere gestita con strumenti e logiche di mercato: dunque editori puri, autonomia totale delle redazioni, vere leggi contro la concentrazione in ogni ambito della comunicazione, normative severe sulla pubblicità. Non sarà la panacea di tutti i mali, ma almeno si metterà rimedio alla scandalosa concentrazione di oggi.  Infine riconoscere un ruolo centrale e di base alle comunità, siano esse cittadine o più ristrette che potrebbero svolgere un ruolo prezioso nel momento in cui i rapporti altri tipi di collegamento vengono messi in crisi e sui quali del resto esiste un’amplissima letteratura.

Insomma occorre riprendere il controllo per evitare lo schianto a cui ci sta portando un equipaggio che ha ubriacato i passeggeri e li ha messi in stato di minorità. Certo mi rendo conto che per ottenere tutto questo bisognerebbe che il controllo sia stato già ristabilito, ma per il momento è già importante che si dimostri di avere un obiettivo e di volerlo conseguire.