8365d7_84506059e5164bfaa22582a62a5d1797Che il neo liberismo con le sue teorie dell’economicismo integrale fosse incompatibile con la salvaguardia dell’ambiente e del pianeta stesso, era intuibile e logico, ma oggi tutto questo  ha anche la sua sistemazione concettuale e insieme la sua dimostrazione pratica: un recente studio pubblicato su Nature a gennaio e riportato sul Guardian più recentemente (qui il  link ) spiega more matematico, che è del tutto impossibile far coesistere gli obiettivi di massima del tanto decantato accordo di Parigi sul riscaldamento globale e insieme la mitica crescita, ovvero l’abracadabra con il quale le elites cercano di ipnotizzare e ingannare la massa delle persone che di quella crescita non vedranno nemmeno le briciole. La ragione è molto semplice: su base annua ad ogni aumento del pil pro capite (ma qui parliamo tipicamente del pollo di Trilussa) dell’ 1,8 per cento, quello auspicato dall’Fmi per l’insieme delle economie, corrisponde una crescita dell’ 1,9 per cento delle emissioni di gas serra.

Lo studio si basa sull’analisi dei dati climatici ed economici dagli anni ’60 del secolo scorso al 2010 e dunque ha una consistenza così solida da aver meritato la non citazione davanti alle opinioni pubbliche da parte dell’informazione. A questo punto è chiaro che la distruzione del pianeta o in ogni caso delle condizioni climatiche per le quali la specie homo è adatta e/o permettono  l’agricoltura intensiva, dunque la produzione di cibo, non è una questione di buona volontà,  anche ammesso che esista, ma di sistema: il neo liberismo e il capitalismo possono sopravvivere, senza lasciare il passo ad altri sistemi economici e sociali solo attraverso due strade: quella di un totale e ragionevolmente rapido cambiamento di tecnologie sia nella produzione dell’energia che nel suo utilizzo, oppure attraverso un immane olocausto bellico che distrugga enormi quantità di forza lavoro e impianti produttivi lasciando relativamente illese le elites e dunque il sistema di comando.

La prima ipotesi è da scartare per una lunga serie di motivi che vanno dalla necessità di giganteschi investimenti a medio e lungo termine che non è nelle corde dell’attuale economia di rapina la quale si regge in gran parte su denaro rubato al futuro delle persone e su profitti immediati, per arrivare al fatto che nuove tecnologie essenzialmente basate sul rinnovabile, inevitabilmente più distribuite e orizzontali non solo farebbero pericolosamente diminuire la centralizzazione sociale, con conseguenze enormi anche sul sistema di comando, ma probabilmente non permetterebbero gli eccessi consumistici di oggi e dunque i profitti di oggi. Di fatto anche se l’apporto delle rinnovabili è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi 15 anni non ha sostituito i carburanti fossili su quali si investono ancora enormi cifre, ma ha finito semplicemente per aggiungersi ad essi in maniera da contribuire al surplus di produzione, almeno su scala globale. Per questo ho l’impressione che le oligarchie finiranno per scegliere un’altra tragica strada.

L’alternativa a queste alternative, perdonate il gioco di parole, sta in una radicale svolta che sposti il fulcro dell’economia dal privato al pubblico. E badate non parlo di un pubblico onesto, socializzante, ma modesto e spesso carente, come nelle razionalizzazioni del secolo scorso, ma di un pubblico ricco, distribuito capace di fornire a tutti eleganza, bellezza e in un certo senso lusso.  Finora tutto questo è stato appannaggio del privato e del ricco, creando sul piano puramente numerico esigue soddisfazioni ed enormi privazioni con conseguente guerra spietata ed eterna fra poveri, ma è sempre più chiaro che ormai per questo non c’è più spazio vitale perché il sistema stesso a questo punto e per qualche verso si rivela letale: il meglio dunque deve essere condiviso a cominciare dalla fruizione del verde, ai trasporti, allo sport, al tempo libero, alle vacanze, all’arte, sottratti a una gestione privatistica nel senso più ampio del termine e diventando bene comune sotto il controllo finale delle conunità, qualunque ne sia il tipo di gestione. Questo crea spazio, allarga il pianeta e lo fa respirare. Certo non è marxismo, non è keysianesimo e rassomiglia molto a una beata utopia per quelli che vivono così immersi nel mercato da non vedere nulla al di fuori di essi, ma qui e là si cominciano a vedere tentativi ion questo senso come nei comuni diciamo cos’ autogestiti attorno a Gand, nelle proposte di fondi di ricchezza dei cittadini in Norvegia e Alaska, nel budget comunitario di Porto Alegre in Brasile. Piccoli esempi che però indicano una direzione nella quale comincia ad essere repinto il modello di singoli isolati che agiscono nel vuoto sociale, come prescritto dal captalismo e portato al grottesco dal neo liberismo, una direzione che si allontana dalla massimizzazione della crescita e mette limiti di benessere sotto i quali non si può andare e ovviamente limiti di accumulazione e dunque di potere che potrebbero corrispondere ai limiti fisici dell’ambiente.