hard timesRicordo che a scuola, dalle elementari al liceo, la rivoluzione americana e quella francese erano presentate come in sequenza, quasi che fossero parte di uno stesso processo, che tendessero a un medesimo scopo e che dunque le origini e le radici della democrazia nella quale immeritatamente si viveva fosse un unico sistema di governo. Solo più tardi mi si fece strada la rivelazione che sì, si trattava di due eventi nell’ambito della presa di potere della borghesia, ma che in qualche modo vivevano dentro orizzonti antitetici: la rivoluzione francese, erede di un lungo processo di elaborazione politica continentale forgiata dall’Illuminismo, da Rousseau, da Kant, tendeva a creare il concetto di cittadinanza che implicava tutta la persona nella costruzione della libertà mentre quella americana, figlia di un atomismo antropologico che si era innestato fin dal ‘500 e così marcato da riverberarsi anche nella gnoseologia, si curava principalmente dell’uomo – lupo, ovvero della libertà in senso economico.

Naturalmente è difficile una separazione netta tra i due aspetti che oltretutto hanno avuto in due secoli e mezzo di storia un’infinità di ibridazioni e innesti, nondimeno ci troviamo di fronte a due tradizioni democratiche profondamente differenti anche se rassomiglianti negli aspetti istituzionali, nelle tecniche e nelle ritualità e disgraziatamente anche nel nome, dal momento che riandando ai tempi in cui il vocabolo si è formato, una potrebbe essere chiamata democrazia in senso proprio, ovvero governo del popolo e della polis in vista di un bene comune e collettivo, l’altra crematocrazia, ossia amministrazione della ricchezza, delle libertà ad essa legata e della sua tutela. In termini moderni e per stare sul generale potremmo dire che la prima afferma i diritti della persona, l’altra quelli dell’ individuo anche se non è semplice distinguerne l’identikit . Ma esistono dei sintomi, delle stigmate che ci fanno comprendere il terreno in cui ognuna di queste tradizioni pianta le sue radici.  La tradizione che si fonda nella libertà economica individuale in quanto carattere totalizzante, presuppone la sua piena realizzazione nell’istituzione “democratica” stessa  e dunque ha sistemi elettorali volti al maggioritario, ovvero alla governabilità perché si tratta soprattutto di fare scelte pragmatiche e contestuali in ragione di interessi presenti, supposti o futuri. L’altra tradizione dovendosi confrontare con un terreno molto più ricco e variegato rispetto al bene collettivo e con diverse concezioni possibili di società, è invece più propensa ai sistemi che proporzionali che danno maggiore peso alle opinioni dei cittadini e per così dire alla loro realizzazione politica. Intendiamoci, ognuna delle due concezioni ha meriti e demeriti, ma quella di tradizione economica ha finito per essere travolta dalle logiche del mercato diventando tutt’uno con quello.

Col tempo e grazie alle straordinarie capacità di accumulazione di sistemi imperiali senza remore, anzi più paghi di se stessi quanto più questa accumulazione cresceva, la tradizione crematocratica è diventata prevalente, ha travolto le sovranità e le cittadinanze imponendo sistemi elettorali maggioritari, anzi di fatto oligarchici, che rendono pressoché impossibile un vero cambiamento e lasciando agli elettori la scelta solo tra facce e slogan che fanno parte della stessa commedia. In più da una ventina d’anni a questa parte ha creato una cortina fumogena per diffamare il proporzionale e soprattutto le sue ragioni di rappresentanza e cittadinanza, per impedire che “elezioni sbagliate” mettano in crisi il globalismo oligarchico ovvero l’ultima versione falsificante della democrazia fondata sul mercato:  grazie ai media tutti posseduti da poche mani e nelle cui file si è imposta una selezione al ribasso, come del resto in quasi tutti gli ambiti, si è fatta di tutta un’erba un fascio mettendo assieme cose radicalmente differenti come sovranismo, protezionismo, nazionalismo, antiglobalismo, statalismo, voglia di rappresentanza e tacciandole tutte di populismo, concetto del resto mai definito, flatus vocis del tutto autoreferenziale, dunque logicamente circolare. Di fatto non esiste vocabolo più essenzialmente populista del populismo.

Un bel pasticcio di cui sono state vittime per prime proprio quelle forze che  avrebbero dovuto essere contro e che invece si sono messe a remare assieme ai padroni del vapore, addirittura deridendo i poveracci che tentano di tirarsi fuori dalle catene, rispolverando per l’occasione testi muffiti e attaccandosi al terribile giovane Marx prima che lo stesso cambiasse idea e si affacciasse alla realtà rifiutando le astrazioni. Lo hanno fatto per orfanaggio e per un piatto di lenticchie che alimenta tra l’altro sfacciate flatulenze pseudo ideologiche tese ad appoggiare ciò che Lenin chiamava il comitato d’affari della borghesia, del quale fa parte l’intera politica. In queste condizioni e sotto il calcagno di un’idea secondo il quale lo Stato e il Parlamento sono solo organi amministrativi e non politici era inevitabile che venisse fuori un qualche Rosatellum perché la stabilità del potere finanziario delle banche e dei centri finanziari non ammette che esista una volontà popolare. Ma era invece evitabile che tutto questo meritasse una decisa e lunga battaglia, non il silenzio che ha accompagnato l’ultima creazione degli stilisti di moda e di governo. Forse non esiste più una volontà popolare, ma una lunga collezione di drammi e mugugni di fronte ai quali non si può fare altro che bere per dimenticare.