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Noi e Loro

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Siamo proprio ben sistemati: da una parte le smanie plebiscitarie di un aspirante premier,  candidato unico e designato tramite voto come nei reality o in miss Italia, con esiti addirittura meno efficienti, contestabili ed esposti a infiltrazioni di probabili voltagabbana di professione,  interprete di un vertice a vocazione autoreferenziale di un organismo vivo, è vero, ma che sembra procedere a tentoni, affetto da tutte le patologie della crescita  – un ammiratore l’ha accusato di invecchiare senza diventare adulto : rissosità, inadeguatezza, soprattutto una rivendicazione di improvvisazione e inesperienza accreditate come virtù rispetto allo scafato professionismo della politica del malaffare, della corruzione, dell’interesse privato.

E non aiuta la “crescita”  che la critica all’opposizione sia scandita soltanto dal dileggio per il contrasto alla consecutio e per il disprezzo del congiuntivo dell’aspirante premier, dalla gara di chi è più fuori corso tra lui o qualche ministro o sottosegretario del partito unico, ma non possiamo aspettarci di meglio. Perché dall’altra parte  sta officiando  un golpe da regno delle banane  un ceto che blinda un sistema elettorale in modo che venga rimossa ogni parvenza di voto libero e di rappresentanza, convertendolo nel rituale della conferma notarile di scelte dettate dall’alto, con l’intento di aggirare la consultazione referendaria che aveva detto no al rafforzamento dell’esecutivo,  di restituire ogni decisione allo strapotere di capibastone e con liste bloccate che cancellano il vincolo di mandato. Proprio una “classe” al servizio di una oligarchia dominante in forma transnazionale: lobby, imprese globali, società finanziarie e gruppi di interessi particolari –  promotori del trattato Ceta entrato in vigore proprio ieri, e che condizionano i decisori, li pagano, li viziano, li intimoriscono, proprio come fanno le organizzazioni criminali e suggeriscono e scrivono norme e riforme confezionate in studi dove la giurisprudenza si preoccupa di ostentare una parvenza di legalità illegittima.

E poi ci siamo noi, noi  che se non andiamo a votare veniamo alternativamente  lodati per aver allineato l’Italia alla scrematura delle  democrazie occidentali dove l’astensionismo pare essere un indice di maturità, o criminalizzati e tacciati di qualunquismo per aver  dimostrato disincanto e disaffezione per una politica sempre più remota e lontana da quella della vita. Noi che dovremmo gioire dell’eclissi delle ideologie, probabilmente perché ha segnato la fine delle idee, noi popolo accusato di populismo quando denunciamo il tradimento, l’abuso, la sottrazione indebita di sovranità, sicché la nostra critica assume i tratti infami dell’eversione, della delegittimazione nichilista, come fosse un’ignominia contrapporre i troppo potenti ai troppo im-potenti, il burocrate  tracotante al cittadino escluso, l’azionista rapace alla tuta blu, il finanziere incontentabile al piccolo coltivatore che arranca. Noi, consumatori “consumati” dalla perdita di beni e speranze, tentati di prendercela con quel corpo estraneo di usurpatori cresciuto al nostro interno, ma anche con chi sta più sotto che non avrebbe nemmeno il diritto di rivendicare il torto subito con guerre e rapine consumate con la nostra correità o volontaria inconsapevolezza.

Se non sappiamo cosa fare, ci sarebbe da cominciare a sottrarsi a quel “noi” enunciato come colpa, condanna e pure assoluzione comune dalle responsabilità, in modo che l’essere insieme e uniti – opera che pare riuscire anche nelle sue forme aberranti della “maggioranza” al nemico di classe – sia un progresso per riprendersi una politica retrocessa a pure fenomeno del potere, per tornare a essere “popolo” e non più plebe o massa. E sovrano e non suddito o schiavo.

 

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