terremoto-messico-1-1Ieri pomeriggio ho toccato con mano il disastro dell’Italia, del ceto politico rapinoso  che l’ha sgovernata, dell’informazione supina, della classe dirigente mediocre e opaca ben oltre i confini della legge, ma soprattutto di un Paese rassegnato il cui amor proprio sul fondo del barile consiste solo nell’imitazione pedissequa delle “tendenze”, credendo così di essere moderno ed evoluto o addirittura, nei casi davvero inguaribili, ribelle.  Oltre questa cortina fumogena, questa vasca per pesci rossi che deforma la vista di ogni cosa, che non è apertura, ma dissoluzione e allo stesso tempo confine invalicabile, non si va. Seguendo prima per caso, poi per puntiglio le cronache del terremoto messicano, che la televisione si è concessa interrompendo il chiacchiericcio assurdo dei suoi notiziari di fantasia, si notava chiarissima una svalutazione a priori dell’ambiente messicano, delle sue capacità di reazione e campeggiava la denuncia scandalizzata degli edifici costruiti col cemento indebolito, come se questa fosse una caratteristica centro americana e non ci coivolgesse in pieno, salvo che da noi è possibile solo qualche accenno da parte dell’informazione maistream lasciando alla fine solo e sempre a tarallucci e vino.

Ora però il tutto ci mostra un aspetto totalmente diverso. Per prima cosa la magnitudo del sisma è stata almeno 30 volte superiore a quelli dell’Aquila e del centro Italia sebbene l’epicentro si trovasse più in profondità rispetto a quelli appenninici e ha coinvolto un’area abitata non da qualche centinaio di migliaia di persone, ma da oltre 40 milioni, un po’ come se i due terzi dello stivale fossero stati sottoposti a un sisma fortissimo. Anche supponendo che le vittime arrivino a mille, quadruplicando l’attuale bilancio ufficiale o triplicandolo se si aggiungono le 98 vittime della scossa di due settimane fa,  non ci sono assolutamente paragoni tra le stragi fatte da terremoti di media intensità in Italia che hanno provocato oltre 600 morti in un’area non densamente abitata e la perdita di vite provocate da quelli fortissimi del centro america che hanno direttamente coinvolto anche una delle megalopoli contemporanee. E il paragone si fa ancora più impietoso se si prendono le cifre dei palazzi crollati, o se si paragona il disastro messicano con quello che ha colpito nel 2012 una delle regioni più evolute del nostro Paese, danneggiando un’infinità di costruzioni industriali recenti, per cui mi chiedevo da dove venisse quell’aria di vaga condiscendenza che ogni tanto baluginava fra le tristi cronache.

Non è forse un caso che dopo un intero pomeriggio a ravanare tra macerie ed esperti già oggi la notizia navighi verso il fondo dei siti on line di giornali e giornaloni: probabilmente non si vuole che alla fine un po’ di aritmetica elementare si faccia strada anche nelle menti più passive e si scopra la fragilità materiale e morale dello Stivale dopo trent’anni di deregulation, di opacità, di lasciar fare e sinergicamente di tirare a campare, di noncuranza ambientale, di scambi di favori e di mancanza di investimenti. Una gracilità che si rivela persino superiore a quella del Messico nonostante che esso ci appaia praticamente da sempre come un Paese tra i più corrotti e meno efficienti del mondo, ancorché abbia una bandiera che almeno da un lato è assolutamente identica alla nostra.

E potrei anche azzardare una scommessa: che la ricostruzione degli edifici crollati, sebbene meno impegnativa e la sistemazione di quelli danneggiati, sarà terminata ancor prima che da noi si sia finito di sgomberare le macerie dell’anno scorso, anche perché lì la popolazione sembra in grado di reagire e non tende in qualche modo a farsi complice dei suoi stessi guai, sebbene quello messicano sia sostanzialmente un regime autoritario sotto un debole velo democratico ed esprima le volontà del potente vicino che ne sostiene il caos interno per trarne un vantaggio.