Internazionale1033-1Per una volta rinvio di qualche riga la notizia principale e racconto prima una storia. C’era una volta in Russia un tale che si chiamava  Grigory Rodchenkov e che nel 2006 diventa capo del servizio antidoping sportivo di Mosca, collegato alla Wada (ovvero l’agenzia mondiale che si occupa degli illeciti chimici dello sport) forse perché la sorella Marina era stata una fondista di qualche speranza negli anni’80 e primi ’90. L’uomo sembra svolgere con diligenza il suo lavoro, ma nel 2011 incappa in un’inchiesta  sulla vendita di sostanze dopanti nella quale viene coinvolta anche la sorella ritiratasi dalle gare ormai da quindici anni e che alla fine risulterà la maggiore responsabilità del traffico. L’uomo però è sconvolto, tenta il suicidio e gli viene diagnosticato un disturbo schizoide di personalità tra i cui sintomi, oltre all’ anaffettività e alla sociopatia figurano anche intense illusioni, allucinazioni di tipo paranoide, presenza ossessiva di fantasie e  pensieri introspettivi che vengono scambiati per realtà.

Una condizione forse esasperata dallo stress dell’inchiesta che tuttavia non costa il posto a Rodchenkov il quale continua nella sua opera di sorveglianza, sebbene a sua volta sorvegliato, fino a che tutta questa vicenda personale non entra nel tritacarne della storia, dentro il golpe arancione in Ucraina e il ritorno della Crimea nella Federazione russa proprio nell’anno in cui si tengono le olimpiadi invernali di Sochi attorno alle quali è necessario costruire un clima antirusso, ricorrendo a qualsiasi mezzo. E così gli squali anglo americani, ben mimetizzati dentro le rituali vesti giornalistiche o accademiche o di colleganza, cominciano a sondare il terreno, a contattare, convincere, promettere fino a che Rodchenkov nel 2015 si “rifugia” in Usa e  vuota il sacco, o meglio il suo sacco:  dichiara ai funzionari del Wada di aver intenzionalmente distrutto i 1.417 campioni per consentire agli atleti russi di sfuggire ai controlli antidoping così che nel mese di novembre dello stesso anno il laboratorio viene sospeso dall’Agenzia mondiale in attesa di approfondimenti e controlli.

Il risultato di tutto questo viene presentato nel 2016 sotto il nome ufficiale di rapporto McLaren grazie al quale 96 atleti tra i più forti al mondo vengono stroncati ed esclusi dalle Olimpiadi di Rio utilizzando tutto questo come carburante per la delirante russofobia occidentale già in procinto di dedicarsi, una volta finita la kermesse sportiva, alle presunte interferenze di Putin nelle elezioni americane. Con, ovviamente, il tripudio dei media ebetizzati dal potere che nemmeno si sognano di controllare o almeno di saperne di più. Ora l’opinione pubblica dà per scontato che dietro il declamatorio  e magniloquente “rapporto McLaren” si nascondano chissà quali analisi accurate, chissà quali prove indiscutibili di quel legame ipotizzato di doping di stato e magari esami tipo Csi visto che la gente viene tenuta in ostaggio dai telefilm e perde contatto col mondo reale: invece nulla di tutto questo, esso contiene esclusivamente quello che ha riferito lo psicolabile Rodchenkov in cambio di una buona sovvenzione a vita da parte del contribuente americano, senza alcun altra pezza di appoggio. E’ incredibile, ma è proprio così.

E adesso vengo alla notizia riportata nel blog “Gli occhi della guerra” e pubblicata il 12 settembre dal New Yorl Times: la Wada ossia l’agenzia internazionale antidoping ( internazionale si fa per dire, perché è sotto controllo americano et pour cause) assolverà entro il mese gli atleti russi perché i campioni raccolti risultano puliti o non affidabili o contrastanti. In poche parole l’ostracismo dato allo sport russo è completamente privo di prove, nonostante che nel 2016 le si volesse ad ogni costo trovare. Tuttavia non è questa la cosa veramente sorprendente in questa vicenda del marcio occidentale: è il fatto che l’illustre e autorevole giornale non dice che degli atleti sono stati condannati, esclusi, privati delle medaglie senza uno straccio di prove, non accusa McLaren e la Wada quanto meno di superficialità o di aver preso decisioni premature basandosi su un solo e non affidabile testimone, non esprime il minimo sospetto sulla strumentalità assoluta e palese della vicenda o sulla spinta di imposizioni politichepiù che sospettabili da parte di Washington, ma sostiene, udite udite, che si dovrà aprire “un dibattito sul fatto che i programmi russi abbiano avuto  così successo nel distruggere le prove” e sul perché le autorità sportive russe “abbiano adottato un approccio morbido alle punizioni”. Insomma non ci sono le prove, non esistono evidenze, ma restiamo saldamente ancorati alle nostre verità di comodo.

Siamo proprio nel mondo di Alice e mi viene da ridere di fronte alla favola che il giornalismo anglosassone si attenga ai fatti e non esprima opinioni, quando invece costruisce le opinioni come fatti e questi ultimi come opinione quando non si accordano con la voce del padrone. Davvero il massimo, una meraviglia, cosa probabilmente vera, ma solo se siete delle mosche.