empresariosA volte a me sembra di vivere nel mondo dei cretini, tra gente che ha assaggiato la mela avvelenata e dorme sonni profondi. Pensate un po’ che il valoroso Economist molto vicino ai produttori delle suddette mele ha scoperto con ansiosa preoccupazione che la ridda di fusioni e acquisizioni con cui si è rivelato al mondo il rutilante neoliberismo ha man mano messo fuori gioco le piccole e medie aziende e ha creato delle super imprese che finiscono col dominare l’economia, con lo sfruttare i giacimenti di intelligenza e innovazione nati altrove: basta un assegno a cui non si può dire di no e si spazza via qualsiasi concorrenza, mentre con gli altri grandi si fa cartello. Il settimanale a sostegno di questa scoperta dell’acqua calda riporta un dato secondo il quale le prime cento compagnie americane nel ’93 producevano il 33% del pil nominale Usa mentre nel 2014 sono arrivate al 46%.

Ora evidentemente la mamma non deve aver detto ai redattori dell’ebdomadario economico che questo è esattamente ciò a cui porta il capitalismo che essi professano, ossia quello senza regole e limiiti posti dallo stato e dalle comunità: la concentrazione è ciò che aveva previsto Marx, ma anche ciò che si è realmente realizzato tanto da dover costringere fin dai primi decenni del secolo scorso alla emanazione di leggi antitrust. E’ anche ciò che deriva dalla stessa logica della concorrenza e della produzione industriale, anche quando applicata come avviene oggi ad altri settori come il primario e il terziario: le economie di scala fanno sì che le dimensioni si accompagnino a una maggiore efficienza dal punto di vista del plus valore, del costo unitario e del profitto. Per questo l’intera storia del capitalismo è costituita da momenti di moltiplicazione di imprese e di concentrazioni successive, prima con l’avvento del vapore, poi con quello del petrolio e dei mezzi di mezzi di trasporto, infine con quello dell’informatica: l’apparente ciclicità non è affatto intrinseca a questa logica, come vorrebbero quelli che pensano a una sorta di autoregolamentazione del capitalismo. ma proprio al contrario  è dovuta agli ostacoli e alle difficoltà che incontra: dalle mutazioni tecnologiche, alle lotte sociali, dalle legislazioni che da esse derivano o a cui si ispirano. alle stesse resistenze dei piccoli per il tramite politico o infine alla stessa necessità ontologica per sistemi di produzione di massa di beni che essi possano essere acquistati. Un fatto del tutto evidente, ma – parrebbe – ancora incompreso o meglio rifiutato alla comprensione.

E’ evidente che man mano che aumenta la grandezza delle compagnie o dei cartelli più forte diventa il loro  potere sia sulla politica, ossia sugli assetti legislativi in gran parte determinati dalle lobby, sia sulla raccolta di denaro, sia sulla capacità di massimizzare i profitti e gestire i prezzi, sia sulle borse, sia in generale sulla vita dei cittadini. Se gli ostacoli su questo inevitabile cammino che ha raggiunto il diapason con la finanziarizzazione dell’economia si affievoliscono come è accaduto a partire dagli ’80 grazie all’enorme potere assunto dai media e dalla loro concentrazioni in poche mani, se le tensioni sociali cadono e la politica si fa solo gestione, questo processo procede verso i suoi esiti finali, travolgendo ogni regola e creando anzi le proprie come è accaduto per le legislazioni anti trust ormai svuotate di gran parte della loro efficacia.

La cosa straordinaria è che illustri economisti nobelati, Stiglitz e Krugman, tante per fare i due nomi più conosciuti  si risvegliano come Biancaneve dal sonno avvelenato e dogmatico e si accorgono che il mondo è dominato da pochi oligopolisti. Ma come, non avevano sospettato prima che sarebbe andata così? Non avevano capito una cosa così semplice o non volevano capirla? In che mondo vivevano? Certo in quello dorato di famiglie abbienti e/o inserite nell’elite come la quasi totalità degli economisti che rappresentano nel modo più cristallino una disciplina di classe, ma è  sconcertante che arrivino a vedere il burrone solo quando ci sono davanti. Del resto la cosiddetta scienza economica è ormai in profonda crisi tanto che spesso che quei premi pataccari assegnati dalla Banca si Svezia e spacciati per Nobel restituiscono un quadro desolante. L’anno scorso il riconoscimento ( che comporta anche 830 mila euro a testa) è andato a due personaggi, Oliver Hart e Bengt Holmström, per avere udite udite prodotto  una teoria dei contratti che permette di analizzare il funzionamento delle retribuzioni per i top manager le quali dovrebbero essere legate ai risultati. Ma c’è molto di più, nella teoria viene avanzata la proposta che gli impiegati possano essere premiati con promozioni, mentre si osserva con straordinario e inedito acume che alcuni potrebbero sfruttare il lavoro degli altri senza averne merito.

Si rimane stupefatti di fronte a tanta brillantezza, creatività e lasciatemelo dire audacia intellettuale: 830 mila euro ben guadagnati. Si può comprendere come l’uso e l’abuso della matematica oltre all’ovvia gergalità tecnica serva a nascondere vacuità e banalità, ma non prendiamo poi che ci capiscano davvero qualcosa.