foto_591296_530x328Qualcuno si chiede come sia possibile. Come possa accadere che un premio nobel per la pace, una fervente pasionaria della democrazia e della libertà, una volta giunta al potere cambi completamente faccia e si comporti ancora peggio di quanto non abbiano fatto le giunte militari che per un  ventennio l’hanno costretta a un regime di semi libertà. Eppure è quello tutti hanno di fronte agli occhi compresi quanti per anni si sono battuti per la sua liberazione e per la caduta del regime militare birmano: la signora Aung San Suu Kyi che sembra fragile come una canna al vento sta attuando il genocidio della gente di Rohingya, una minoranza musulmana in Birmania (nota 1), ma anche una minoranza di lingua indoeuropea nel cuore dell’Asia che cosa che forse gioca un suo ruolo inconscio nella particolare attenzione verso questa piccola popolazione, se è vero che analoghe repressioni etniche verso altre etnie del Paese hanno ricevuto minori attenzioni in passato.

Ma questa volta l’accanimento è straordinario e la signora nobelata non solo non ha mosso un dito per fermare i massacri una volta rivelati dall’Onu e dalle autorità di Paesi come l’India e il Bangladesh alle prese con l’arrivo dei profughi, ma prima è stata zitta, poi ha negato fatti tremendi e indiscutibilmente provati, successivamente è passata all’attacco incolpando i Rohingya di ingratitudine per essere insorti quando invece il governo ha fatto tanto per loro e infine ha negato l’esistenza stessa di questo gruppo etnico chiedendo all’ambasciatore statunitense di non usare il termine Rohingya, una specie di astuzia delirante per evitare l’accusa di genocidio. E non basta perché ha ingannato e ostacolato i funzionari delle Nazioni Unite che hanno cercato di indagare sul trattamento della Rohingya, ha impedito alle agenzie di aiuto di distribuire cibo, acqua e medicinali a persone sfollate o isolate dalla violenza dell’esercito, ha accusato i lavoratori della regione di aiutare i “terroristi” e infine ha diseeminato il terriotorio di mine anti uomo.

Qualcuno cerca ancora di giustificare un comportamento ingiustificabile, dice che lo fa perché non vuole mettere in pericolo le sue prospettive di elezione o che non vuole offrire alle forze armate un pretesto per stringere la loro presa sul potere, come se  ciò avesse un senso visto che il comportamento è ancora peggiore di quello dei militari. Capisco che nell’imbecillario contemporaneo questo falso sillogismo è accettato e diffuso dalla cronaca nera alla politica: faccio quello che farebbe il mio avversario per evitare che vinca, ma insomma di fronte agli stermini  la cosa assume un’ aspetto grottesco.  La verità pura e semplicemente è che si è sbagliato completamente ad individuare la persona, si è puntato sulla figlia di un eroe nazionale birmano dal curriculum quanto meno ambiguo (nota 2), ma educata in Inghilterra e in Usa,  garanzia certa di un futuro ritorno del Paese nel seno occidentale perché divenisse un problema in più per la Cina  e la si è pompata in tutti i modi a prescindere dalle capacità o dalle idee o semplicemente dall’ ovvia volontà di un membro della piccola ed esclusiva elite birmana di conseguire quel potere che fu prima del padre e poi della madre, a prescindere dal contesto, da intenzioni, programmi o ideali.

Era del resto la soluzione più a portata di mano perché quel po’ di semi democrazia che la Birmania ha conosciuto nel dopoguerra conteneva un grave pericolo per gli occidentali: la forza politica maggiore,  non a caso messa fuorilegge già nel ’48,  era quella costituita dal partito comunista. Di qui il susseguirsi di una serie infinita di regimi militari che per gli Usa erano sempre meglio che  ritrovarsi alle prese con un altro Paese comunista peraltro confinante con la Cina. Certo, per complessi problemi culturali, questo comportava anche un isolamento del Paese e l’impossibilità per le multinazionali di sfruttarne le risorse, cosi quando si ritennero maturi i tempi per un graduale ritorno della Birmania nel commonwealth occidentale, vale a dire con il collasso dell’Urss e la fine della guerriglia comunista, si cominciò a costruire una nuova opposizione rappresentata appunto da Aung San Suu Kyi, figlia dell’eroe locale, il cui lancio nelle sfere della mitologia mediatica avvenne con il Nobel, nel ’91, operazione probabilmente e ingenuamente prematura che le costò anni di restrizioni e domiciliari.

Come si vede l’ingresso del Paese nella democrazia è stato decisivo come argomento formale, ma  del tutto marginale e persino equivoco nella sostanza anche se adesso costringe a una precipitosa marcia indietro per salvare la faccia, con la richiesta e relativa raccolta di firme in calce a una petizione, di ritirare il premio nobel per la pace conferito a Aung ( e qualcuno ci mette dentro anche Obama). Si tratterebbe in fondo solo di forma, ma pare che il comitato del Nobel, aduso a farsi dettare qualsiasi nome, abbia già risposto che non si può e che i Rohingya si fottano ancora una volta visto che la repressione etnica era una delle maggiori accuse a carico della giunta militare. Del resto non si può esagerare visto che il governo di cui la nobelata fa parte ha per prima e forse per sola cosa aperto le porte alle multinazionali statunitensi.

Nota 1 Il nome Birmania deriva da quello tradizionale e popolare del Paese, ovvero Bama, mente Myanmar, derivato da Myama, imposto dalla dittatura militare nel 1989 è un termine di uso quasi esclusivamente letterario. Dunque non vedo alcun motivo  per usare il nuovo nome come se ciò fosse rispettoso delle denominazioni autoctone quando invece è probabilmente il contrario.

Nota 2 Aung San, padre di Suu kiy era un ultranazionalista che combatteva la dominazione coloniale inglese e che per questo fu presto destinato all’esilio in Cina e Thailandia. Ma con l’entrata in guerra del Giappone formò il Burma indipendence army e quando nel ’42 i giapponesi presero Rangoon  scalò ben presto  il vertice del potere, tanto da essere ricevuto persino dall’ Imperatore Hiro Ito. Quando il primo gennaio  del ’43 i giapponesi dichiararono l’indipendenza della Birmania, Aung San divenne primo ministro e cercò di reprimere duramente i comunisti, benché anch”egli avesse militato in quella fazione nella lotta contro il regime coloniale. Tuttavia il 27 marzo del 45, quando ormai gli americani e gli inglesi si apprestavano a riconquistare il Paese e avevano già preso Mandalay, fece un giro di 180 gradi e dichiarò l’insurrezione armata contro i giapponesi. Sebbene a capo di un governo fantoccio di Tokio, Auung San, aveva accumulato abbastanza “meriti” per essere tenuto in gioco e essere messo a capo del governo provviorio voluto dagli inglesi. Si dedicò a contrattare i termini di una futura indipendenza che tuttavia non vedrà: sarebbe diventato certamente primo ministro se non fosse stato assassinato nel ’47 da un avversario politico per ragioni che tutt’ora rimangono inesplicabili.