Anna Lombroso per il Simplicissimus

A leggere l’Istat sull’occupazione, l’unico riferimento a alto valore scientifico che viene in mente è a Trilussa e alla constatazione che di quel pollo a noi non viene servita nemmeno la carcassa e neppure il profumino domestico  di arrosto della domenica. Guardo con lo stesso sospetto allo scontro tra statistiche in corso con le povere donne ridotte a polli tra chi sostiene che la più alta percentuale di violenze contro le donne sia da attribuire ai barbari che ci hanno invaso e alle loro tradizioni  e ai loro costumi patriarcali arretrati e maschilisti incompatibili con la nostra cultura e la nostra democrazia, e quelli invece che dicono che la maggioranza – prima gli italiani? – va riconosciuta ai nostri concittadini, spesso coniugi o famigliari o amici, si fa per dire, delle vittime, che l’appartenenza a una civiltà superiore non esime dal macchiarsi dei più sordidi e infami delitti.

Ormai i contesti nei quali viene messo in scena lo scontro tra civiltà sono i più svariati e altrettanto eterogeneo è il fronte dei difensori delle nostre libertà.

Tanto che la stampa di destra solitamente ben schierata sui capisaldi di “tutte puttane salvo mia mamma e mia sorella”, di “vestita così se l’è voluta”, di – nel caso di stampa padana – “la piasa la tasa e la staga in casa”, si improvvisa paladina di diritti che un tempo, prima delle incursioni, considerava licenze pericolose: uscire di  sera in minigonna, non indossare opportuni jeans deterrenti e protettivi, avere atteggiamenti disinibiti, tenere comportamenti liberi allora considerati alla stregua di immorali provocazioni e preliminari a sconce promiscuità. Tanto da deludere il “mediatore culturale” prendendo le distanze dalla sua spericolata teoria “si resistono un po’ all’inizio, ma poi gli piace” che fino a ieri faceva parte del loro bagaglio antropologico  così da giustificare con dotti accorgimenti giuridici – quel vis grata puellae – fino a autorizzarle, certe “insistenze” e forzature  praticate  per far superare civettuoli pudori, magari a suon di sberle e pugni.  E tanto da volerci persuadere che quello che doveva essere accettabile se consumato in casa e da italiani, così ben descritto tanti anni da  Simone de Beauvoir:  l’imbarazzo di sentirsi prede, oggetto di desiderio, esposte a  aggressioni verbali e non solo se si passa davanti a un caffè dove bivaccano conterranei sfaccendati suscettibili di trasformarsi in branco, non deve essere tollerata e punito con inusuale severità se quella innegabile violenza è esercitata da un “mucchio selvaggio” di ospiti indesiderati accampati ai giardinetti e per strada senza altro destino che rifiuto e trasgressione per via della loro preventiva condanna all’irregolarità.

E ti pareva che non facesse breccia la beneducata xenofobia alla Serracchiani che pretende che gli ospiti, non voluti e mal sopportati in qualità di forestieri che puzzano già dal primo giorno proprio come  i nostri immigrati allo sbarco in America, mutuino e facciamo propri solo i comportamenti virtuosi, a cominciare da ubbidienza e conformismo, lasciando a noi indigeni vizi, illegalità, aggiramento di regole, prepotenza, sessismo e ovviamente razzismo, carattere riconosciuto e autorizzato come monopolio esclusivo di civiltà minacciate.

Come se l’acre sudore del forestiero offenda più l’olfatto del dopobarba  dell’uomo che non deve chiedere mai, come se le mani che stringono alla gola o affibbiamo uno schiaffone facciano più male se sono nere, come se la donna oltraggiata sia obbligata a fare una graduatoria dello sfregio: in cima la belva venuta da fuori, peggio, molto peggio dell’amico di famiglia, del fidanzato, del ragazzotto incrociato al pub. E come se, per tornare alle statistiche, non siano esaurienti quelle che danno conto delle denunce, troppo poche, il 7 % dei delitti commessi, a segnalare che permane la vergogna del danno subito, la paura delle ritorsioni, l’incertezza della pena, il calvario degli accertamenti ancora più dolorosi e irrispettosi e difficili se il carnefice è un insospettabile, un cittadino perbene, un gruppo di ragazzi esuberanti difesi dalla cerchia familiare, mamme comprese. E se la testimone che ha premesso l’arresto del branco di Rimini è passata alle cronache non come vittima, non come persona collaborative e coraggiosa, ma come trans, prostituta per di più peruviana.

Mussolini aveva proibito la cronaca nera che a suo dire infondeva paura, insicurezza e sfiducia. Il fascismo di oggi, in assenza di delitti estivi truculenti, di una circe o di due complici diventati nemici – se si esclude qualche tandem di governo – riempie le prime pagine con la combinazione esplosiva di violenze e immigrazione, stupri e deplorevole tolleranza dell’invasore, sospetto e culto della superiorità occidentale, perché le nuove esigenze dell’impero esigono intimidazione anche ideale e virtuale, ricatto e costrizione senza nemmeno proporre una illusione, senza nemmeno annunciare un “meglio”, senza nemmeno svendere un sogno neppure quello dei consumi e dell’accesso al lusso, salvo quello di un ordine pubblico, di un decoro capace di occultare malessere e miseria, perché oggi ancora più di allora il più efficace sistema di controllo sociale è la paura a cominciare da quella dell’uomo nero, tremenda per un popolo che si vuole soggetto e infantile.

E infatti il diritto a godere le libertà che meritiamo per via dell’appartenenza a un contesto civile e moderno sempre di più si limita all’apericena, alla rimozione di fastidiosi accattoni, al concertone in piazza protetto dalle fioriere, alle gite scolastiche coi gemellaggi per socializzare in un’Europa che pratica isolamento e rifiuto.  Mentre intanto si cancellano quelli all’istruzione – che è il più potente deterrente in grado di contrastare violenza e rancore e disperazione, insieme al lavoro, all’assistenza, alla tutela del territorio e dei beni comuni, alla casa. E pure a quello di essere informati e dunque liberi di capire e scegliere e decidere cosa pensare e come agire di conseguenza, se non siamo nemmeno più autorizzati a urlare contro la violenza e lo stupro sempre e comunque, senza graduatorie e senza distinguo come dovrebbe accadere se libertà, uguaglianza, giustizia, solidarietà non  fossero parole vuote confinate nel vocabolario della “retorica”.