Anna Lombroso per il Simplicissimus

C’erano  espressioni  e locuzioni irrinunciabili per il gergo dei vecchi cronisti di nera: i soliti sospetti la banda del buco, crimini maturati in squallidi ambienti della malavita, delinquenti ben noti alle forze dell’ordine, branco di giovani teppisti, inveterato borsaiolo,  che oggi si prestano benissimo per definire il nostro ceto dirigente, politici, amministratori, imprenditori e pure qualche alto grado dell’esercito o della guardia di finanza, banchieri e bancari, controllori sleali, manager corrotti e manager corruttori, e che, sempre per sconfinare nella letteratura di genere, reiterano i loro misfatti, godono di impunità, mutuano abitudini e vizi dalle cupole criminali con le quali intrecciamo reti di mutuo soccorso e profittevole collaborazione, esercitano intimidazione, estorsione  e ricatto come i  racket, fanno il contrario di Robin Hood  rubando ai poveri per dare ai ricchi, sfruttano e speculano su straccioni indigeni e ospiti, avvelenano e ammalano in stato di preventiva immunità eo di totale impunità.

Una differenza c’è: di questi la stampa si occupa ma non per informarci sui loro truculenti reati, macché. Li vezzeggiano, adulano, ci trasmettono il loro dire senza mai chiedere un come o un perché, li seguono più ginocchioni di loro nelle missioni presso i grandi della terra, nelle visite pastorali presso  varie sofferenze  oscurando fischi e grida, pronti a convertire la cronaca in esercizio agiografico del pellegrinaggio o in celebrazione di giornate della memoria di lutti e vergogne rimosse, come sta accadendo oggi nell’anniversario delle prime mortali scosse del sisma del Centro Italia.

Come quando dopo mesi di resoconti di scampagnate dei potenti e sottopotenti, qualche giulivo stupefatto si accorge – è il caso di Repubblica – che Amatrice continua a essere una città fantasma, o peggio ancora che è un set dove si gira lo spettacolo del disastro insanabile.

O quando un talkshow del mattino per fare qualcosa di meno banale e abusato, decide di parlare di terremoto, si, vista la circ0stanza, ma per collocare la ricostruzione dell’Emilia nel novero dei casi di successo, invitando l’apposita sottoministra a magnificarne i fasti sottolineando le differenze – è una mania la loro – di cratere, dimensioni, magari per adombrare anche quelle di indole degli amministratori, in modo da sottrarre il palmares al Friuli e a Zamberletti. Con l’esplicito intento di puntare il ditino perfetto di manicure contro le burocrazie, la sovrabbondanza di leggi che rendono arduo al suo probo governo applicare i tanto magnificati principi di semplificazione che, lo si capiva tra le righe, ha avuto insigni sacerdoti nel passato, quando la gestione dell’emergenza poteva avvalersi del ricorso a licenze e regimi eccezionali,  chi comandava attingeva ai già magri bottini a piene amni e allora si che si poteva fare senza paura di sbagliare e cadere nelle maglie di indagini e inchieste.

Non c’era da dubitare che il partito unico avrebbe rivendicato il caso di successo dell’Emilia Romagna, sul quale peraltro si sa poco forse per via della naturale ritrosia e riservatezza delle laboriose genti padane, o magari perché il sito allestito a suo tempo dall’ex commissario non viene aggiornato da più di otto mesi. O a causa della sobrietà con la quale quello della regione informa sui risultati, sia in termini di “ricostruzione” del patrimonio edilizio e abitativo, che per quanto riguarda provvidenze e finanziamenti per le imprese locali colpite, per i quali vengono pudicamente omessi i numeri e la natura degli interventi.

Non c’è da stupirsi: si tratta di un trionfo, se così lo vogliamo chiamare, dell’iniziativa privata. Chi è riuscito a rimettersi in pedi lo ha fatto attingendo ai risparmi, riuscendo a ottenere prestiti per niente agevolati, contando su promesse di defiscalizzazione temporanea, misure queste che nel Centro Italia attendono che il presidente Gentiloni come ha promesso durante la sua escursione di ferragosto metta mano per riparare alle nefandezze del decreto del suo governo.

Intanto Curcio si è dato e come dargli torto, Errani – come lo chiamerebbero quelli della cronaca nera? – fa sapere di aver svolto il suo compito come da mandato temporaneo “mettendo le basi per la ricostruzione”. E poco importa se abbia dichiarato forfait come pareva a sentire una sua improvvida dichiarazione intercettata qualche mese fa nella quale manifestava la sua impotenza, se davvero le lusinghe di una inarrestabile carriera nelle file dissidenti lo abbia persuaso a lasciare. Il brav’uomo scelto da Renzi   come immaginetta del probo dirigente venuto dal passato della regione rossa e non rottamato proprio in virtù della faccia da italiano in gita come Bartali, ha mostrato la vera natura del ceto che ci ha portato alla rovina per ambizione, smania di tutela di miserabili privilegi e rendite di posizione, combinate con la più indecente indifferenza per gli obblighi derivanti dal proprio mandato e per le responsabilità che ne derivano.

Certo salvo qualche sospetto rientrato, non era stato mai pescato con le mani nel sacco, a riprova che l’onestà sarà pure condizione necessaria ma non sufficiente se esime dal furto ma concede una colpevole inazione, una complice tolleranza per chi invece lo fa, se chiude gli occhi per non vedere chi ha la bocca spalancata per mangiarci tutto.