hamburger.jpg--A fine 2008 o primi del 2009, adesso non lo ricordo più, il Financial Time in uno degli articoli sull’Italia di Berlusconi scrisse la che tv del Paese non faceva altro che trasmettere programmi di cucina, cosa che allora mi parve sacrosanta. Da scarso conoscitore del piccolo schermo non sapevo che da che pulpito arrivase la rampogna, cioè da un Regno Unito nel quale c’erano più di 200 trasmissioni di cucina alla settimana, masterchef compreso ancora in attesa della sua consacrazione mondiale. Questa era solo l’espressione dell’ipocrisia autistica tipico della cultura anglosassone, ma il fatto è che proprio in quegli anni, assediati dalla crisi, si è assistito a un boom progressivo della ristorazione e dell’attenzione al cibo, sempre guidata nei suoi effimeri decaloghi da interessi commerciali e lobby.

In realtà nessuno è riuscito a spiegare come e perché ciò sia avvenuto in un contesto di redditi in caduta, forse le classi medie si sono buttate su un ambito di spesa ancora accessibile alle tasche di molti, però il fenomeno non è durato moltissimo: nel 2014 si è raggiunto il picco con 638 mila ristoranti in Usa, ma da allora si è assistito a una progressiva contrazione di punti di ristoro che oggi sono ventimila in meno. Per prime hanno sofferto le grandi catene economiche che hanno dovuto chiudere molti ristoranti (700 solo McDonald) o sono semplicemente scomparse a decine, ma poi anche i ristoranti normali, quelli sottoposti all’imperativo delle mode alimentari, sono stati investiti da una loro recessione, mentre hanno tenuto solo i posti da ricchi, divenuti ormai luoghi di espressione di status sociale nel quale il cibo e la cultura culinaria hanno un ruolo marginale perché il facoltoso avventore, specie in Usa dove le bussole del gusto sono recenti e stereotipate, non ha vero interesse a ciò che mangia. ma al contesto elitario.

Tuttavia come era inspiegabile la crescita negli anni successivi al grande choc, anche questa crisi risulta solo parzialmente comprensibile in termini puramente economici: il divario tra alimenti acquistabili al dettaglio e prezzi dei ristoranti è aumentato mentre la minore e comunque più episodica occupazione ha messo ai fornelli più gente di prima, il cibo di strada toglie un po’ di spazio a quello industriale dei fast food, le ricette pronte dei supermercati supportano le nuove generazioni totalmente ignare di cucina e proprio per questo appassionate dei bugiardi fornelli da tv, ma poiché il fenomeno investe anche i centri cittadini dove i residenti sono soltanto una percentuale marginale rispetto ad uffici ed attività, si è resa necessaria una sorta di spiegazione sociologica. Quelli che si tengono attaccati con le unghie e con i denti al posto conquistato, che non possono permettersi soste oltre la mezz’ora che devono essere sempre efficienti, che si drogano con oppiacei per resistere al dolore lancinante di questo modello di vita, non vogliono posti affollati, vogliono essere soli col loro panino, cosa che verrebbe avvalorata in qualche modo anche dalla crescita dei servizi a domicilio che evita di uscire e di socializzare sia pure con un livello minimo di interazione.

Però dietro tuto questo si nasconde un dramma: secondo le statistiche Usa la maggiore fonte di nuovo lavoro per quanto temporaneo se non occasionale è per l’appunto nel campo della ristorazione e del commercio (anche gli ipermercati con le loro decine se non centinaia di negozi sono in crisi) possiamo guardare la faccia bugiarda della  cosiddetta “ripresa americana” e di conseguenza anche di quella dell’intero occidente. Del resto parecchi analisti, di quelli che ora hanno abbassato il rating delle corporation del cibo, si domandano se questa questa recessione culinaria non sia un campanello di allarme per una nuova crisi generalizzata per coprire la quale si agitano irresponsabilmente anche i venti di guerra. Il sistema comincia a crollare dallo stomaco che del resto è un buon contrappasso per la sua ingordigia.