Anna Lombroso per il Simplicissimus

Quando penso agli italiani che ogni giorno si sentono minacciati nella loro identità e nella loro appartenenza a una civiltà con annesso stile di vita superiore, da etnie, abitudini e tradizioni incompatibili a loro dire con democrazia, libertà individuale, progresso, invece di prendersela con i loro carnefici, me li immagino come topini di laboratorio costretti a arrampicarsi su e giù per le scalette delle loro gabbie sempre meno dorate, pungolati nella loro dissennata corsa da rate, mutui, bollette e i mille capestri pensati per avvilirli, annientarne forza e indipendenza, ricattarli e impoverirli per farne sudditi annichiliti e animali spossati dal loro inutile affannarsi.

Adesso mi succede di vederne una nuova di cavia che si agita, corre su e giù, lancia squittii ormai inascoltati pensando siano ruggiti.  Perché non si tratta di un leone ferito e nemmeno di un cinghialone morente, è un sorcio che non ha conosciuto nobiltà nella vittoria e che mostra la sua miseria nella disfatta.

Non dirò povero Renzi nel vedere la sua ricerca di prove della sua esistenza, della possibilità, ormai remota, di resurrezione mentre insegue l’aborrito populismo, lancia risibili editti e scomuniche, invoca misure poliziesche, repressione e respingimento, o  cerca tribune e platee sempre meno influenti e sempre più ridotte, che, doveva saperlo, altri topi che aveva intorno hanno abbandonato da tempo la nave, fossero famigli per loro natura sleali, compagni di merende che ritengono di non aver mangiato abbastanza, affini e quindi come lui dediti a tradimento e abiura, celebrati censori a mezzo servizio e augusti giustizieri che si accorgono solo ora della trama oscura di misfatti nella quale agivano l’illustre babbo e l’acclamato amichetto del cuore.

Non dirò povero Renzi! di uno dei peggiori prodotti commerciali ridotto a esibirsi sugli scaffali dell’outlet della politica. Troppo dobbiamo imputargli: essere stato l’esecutore solerte di quella strategia che ha combinato debito pubblico sempre più ingente e impoverimento sempre più diffuso e devastante per esercitare un controllo sociale definitivo, con l’aiuto di misure e leggi speciali, il rafforzamento artificiale dell’esecutivo, lo smantellamento della rete dei controlli e l’esautoramento del parlamento, mentre diventavamo sempre più labili influenza e autorevolezza degli stadi intermedi, sindacati, stampa, organismi rappresentativi e partecipativi. A lui e alla sua cerchia di ministri si deve la poderosa ripresa in grande stile del sacco del territorio grazie al miserabile impegno investito nella difesa e protezione (dei 9 miliardi venduti ai giornali dallo sfrontato dittatorello due anni fa, sono stati trasferiti alle regioni solo 110 milioni), in virtù della priorità data sulla carta e non solo a megalomani progetti, già costosi nella fase di annuncio perché mettono in moto spese e  appetiti, perché promuovono alleanze scellerate tra imprese e amministratori creando le condizioni per corruzione e voto di scambio, mediante leggi che prevedono l’alienazione del bene comune attribuendo rilevanza alla rendita e alla proprietà privata. A lui dobbiamo la riforma  che ha mostrato inequivocabilmente  l’intento di cancellare  il lavoro per ripristinare le condizioni della schiavitù, con i suoi ricatti, l’intimidazione, la fine di valori legati a aspirazioni, talenti, vocazione e il volontariato obbligatorio  per  consolidare l’unico diritto sopravvissuto quello alla fatica, ma precaria, incerta, condizionata da racket e caporalato.  È stato lui il “demiurgo corrotto” che ha soffiato vita in banche intossicate, le stesse che mentre derubano i risparmiatori, riciclano indisturbate il “denaro sporco”, di cui droga, prostituzione, caporalato, traffico di esseri umani sono l’alimento, nell’intreccio velenoso di capitale finanziario e malavita.

Non dirò povero Renzi! Per carità. Se lo meritava di restare solo da quando, come avviene per i caratteri naturalmente distruttivi, ha messo in piedi la recita del guerriero solitario in lotta contro il male, del cavaliere senza paura che agisce per il bene rappresentato dal cambiamento e si attende il giusto riconoscimento tramite incoronazione referendaria, dell’avventuriero che sfida regole e leggi per far trionfare il suo progetto.

E mai vorrei cadere nella trappola di quei fini osservatori del costume nazionale già molto attivi, che a ogni caduta di despota, quando la testa rotola giù dal busto marmoreo ne approfitta non per denunciarne le colpe, ma per metterci sul lettino dello psicoanalista esprimendo schizzinosa deplorazione per la plebe ingrata, per il popolo incline per natura a omaggiare il potente e denigrarne la figura postuma, per la massa infida e la sua indole a servilismo e conformismo, che le stesse alate penne hanno alimentato e consolidato, contribuendo a creare l’icona positiva del vincente che si batte contro velleità e critiche di frustrati, parrucconi, disfattisti. È che bisogna guardarsi da chi trasforma le responsabilità del potere in colpe collettive, in chi manovra la livella in modo che criminali e vittime si mescolino, corruttori e comprati, imbonitori e creduloni accomunati dagli stessi vizi che una angusta antropologia attribuisce alla nostra identità nazionale.

Su un sentimento provo una lontana affinità con Renzi e i suoi: se ci hanno odiato tanto, è legittimo che lo stesso odio lo riserviamo a loro.