Anna Lombroso per il Simplicissimus

Succede con   sospetta regolarità che torni di moda il volumetto scritto intorno ai vent’anni da uno dei più celebrati enfant prodige del disincanto, quel Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de La Boétie, che dopo aver ispirato rispettabili menti del passato, qualcuna così entusiasta da plagiarlo,  oggi si addice a accidiosi eterni disillusi, a qualche Moccia della filosofia un tanto al metro, intenti a convertirne gli interrogativi e più ancora le certezze in pensierini degni di avvolgere i biscottini del ristorante cinese.

Certo, non sorprende che risulti gradito e consolatorio in questi tempi di indolente abiura della critica, convincersi che “la prima ragione per cui gli uomini servono di buon animo è perché nascono servi e sono allevati come tali”, o “che servire sia un’indole che alberga nell’animo degli uomini”, o anche che “ben lungi dall’essere una coercizione la soggezione sia connaturata negli individui e premi così il loro desiderio di appartenenza e riconoscimento”.

Nè stupisce che abbia successo (sei edizioni italiane dal 2006 al 2016) tra superciliosi divini mondani,  schizzinosi  e scettici blu con il guanto penzolone, la conferma, che viene dal passato, di quanto  sia vano combattere contro un istinti naturale che alligna nelle massa, come possa appagare la pretesa di innocenza di chi pensa di non far parte del popolo bue quindi servo, chiamandosene fuori vuoi per nascita, censo,   buone relazioni o diritti proprietari che si tramandano per successione o incondizionata adesione assicurando carriere accademiche, posti ben remunerati e soprattutto la voluttuosa e remota superiorità che permette di guardare il dibattersi della moltitudine che tira su le piramidi per il faraone, dal davanzale di casa o sporgendosi dalla portantina.

E’ che è proprio una tentazione irresistibile quella di appartarsi a causa del destino che vede perdenti ragione e logica rispetto a istinti belluini, a impulsi primordiali e incontrollabili destinati ad avere la meglio, persuadendo dell’inanità della resistenza, sicchè anche per quelli che rivendicano appartenenza a élite illuminate e pur accampando algida distanza da un regime volgare, ignorante e grossolano, è inevitabile rassegnarsi alla realpolitik, allo scetticismo, a un pragmatismo che prevede l’abiura dalla ricerca di altro da tutto questo agitarsi in nome di avidità, profitto, possesso, accumulazione e dispotismo, se tanto il destino è quello di essere rinchiusi in gabbia, si sia usignoli dell’imperatore o cavie che si arrampicano disparatamete su e giù per dondoli e scalette.

E a volte capita anche a me di provare un imbarazzato senso di fastidio per certi nuovi schiavi volontari.

Succede quando si vede qualche ragazzo inorgoglirsi quando dichiara con fierezza di fare i “pilota di droni” ultima frontiera domestica e miserabile della stessa guerra che viene mossa sganciando bombe con clic su inermi popolazioni lontane miglia e miglia, che poi l’obiettivo è lo stesso, astrarre ogni azione anche la più efferata, per farla rientrare in una narrazione in cui tutti sono esonerato dalle responsabilità e dalle scelte. O quando compaiono nel corso delle liturgie gastronomiche autorevoli detentrici di blog culinari, oppure quando la compulsiva ostensione di piatti di tagliatelle risottate o di modeste prede ittiche su Instagram autorizza il fotoamatore a proclamarsi professionista dell’immagine.

E che dire di affittacamere improvvisati che si accreditano come manager dell’accoglienza, di quelli che hanno venduto su E bay il servizio buono della zia e si propongono per incarichi di web marketing. Tutti ugualmente corrotti, tutti comprati prima ancora che ricattati di modo che fare i volontari all’Expo sembri un’esperienza di formazione, da persuadersi che i vaucher siano una generosa elargizione aggiuntiva a un  gratificante tirocinio, da spendersi gli ultimi fondamentali sani di famiglia per foraggiare l’empia associazione per delinquere che organizza master acchiappacitrulli. Tutti o quasi convinti che la servitù se volontaria non sia tale, che costituisca non un ingiusto sacrificio a perdere ma addirittura un investimento e che chi non ne approfitta sia uno sfigato che non sa meritarsi l’opportunità riservatagli. Come è successo con l’Expo, quel test delle occasioni formidabili prodotte dal Jobs Act, grazie al quale si è accreditata l’oscena menzogna che il volontariato sia il viatico o meglio ancora il passaggio propedeutico al “posto” e al salario, che si merita ancor meglio se accompagnato dal presenzialismo in rete, dal narcisismo combinato dei ragazzi sfruttati e di Sala e degli illustri visitatori, con in testa l’allora irriducibile monarca poco avvezzo al lavoro,  immortalati nell’immancabile selfie.

Ogni tanto dovremmo riguardarcela quella foto ricordo, per suscitare in noi una qualche sopita ribellione al pensiero che soggezione e sottomissione  siano una incontrovertibile e inesorabile condanna genetica, per ricordarci che  i servi seppur molesti e vergognosi  come un  inconfessato peccato collettivo, non sono loro i colpevoli, soggetti semmai solo a una sorta di implacabile sindrome di Stoccolma che determina insondabili complicità tra vittime e carnefici. Che i responsabili – sistema, sempre lo stesso mutante ma riconoscibile, la sua religione garantita e officiata dai suoi sacerdoti e dalle sue gerarchie di servi anche loro, grazie al sistema di caporalato diffuso,  sia pure privilegiati e esonerati dal bisogno se non dall’umiliazione – sono da sempre in guerra contro di noi e contro quanto dentro di noi reclama libertà. E quello si che è un istinto naturale.