Anna Lombroso per il Simplicissimus

Non stupisce che l’ ultima forma di pronunciamento popolare della quale non siamo stati ancora espropriati costituisca il babau per il regime che la teme, cerca di impossessarsene per convertirla in conferma plebiscitaria del suo strapotere,  la deride, la oltraggia e soprattutto la tradisce. Basta pensare alla spregiudicata manomissione della volontà espressa da 27 milioni di italiani che nel giugno 2011 hanno detto con chiarezza che l’acqua è un bene comune inalienabile e che il suo possesso e la sua gestione non devono essere lasciati nella mani dei privati e secondo le regole del profitto. La crisi idrica – non certo inattesa – di questi giorni, i suoi risvolti grotteschi, il rimpallo di responsabilità, i giri di valzer di competenze e le ridicole pretese di innocenza dei colpevoli di ieri e di oggi, si antica e ripetuta o di recente nomina, conferma che  gli italiani avevano ragione, che avevano  visto giusto. Perché in 20 anni di processo più  o meno esplicito di privatizzazione della gestione dell’acqua, gli investimenti sono precipitati a un terzo di quelli mobilitati dalle precedenti società municipalizzate, che la qualità del lavoro e dei servizi offerti è peggiorata, che  le tariffe sono aumentate  mentre gli utili sotto forma di dividendi vanno agli azionisti  invece di finanziare la manutenzione e lo sviluppo delle infrastrutture obsolete e trascurate.

Così mentre Zingaretti-  che pare uno appena risvegliato bruscamente dall’ibernazione- si esibisce in spericolate esternazioni:  di fronte a un problema puoi dire che è colpa di altri. O risolverlo, riferendosi una funambolica ordinanza che conferma il blocco delle captazioni dal lago di Bracciano a partire dal primo settembre ma nel frattempo introduce la possibilità di prelevare dal lago 400 litri al secondo fino al 10 agosto e 200 litri al secondo dall’11 agosto, o mentre il ministro Galletti che dovrebbe essere accusato di abuso del termine Ambiente,  rivendica che il provvedimento tampone è stato preso “per scongiurare una figuraccia internazionale ma cercherà soluzioni alternative grazie a “nuove reti,  nuove infrastrutture perché io voglio che nessun altro ministro dell’Ambiente si trovi a dover affrontare quello che ho dovuto affrontare io … per far tornare Roma ad essere, non dico una capitale d’eccellenza, ma almeno una città normale”, ecco che l’Acea tira fuori, in festosa coincidenza con la provvidenziale emergenza,  un piano straordinario di interventi “per l’ammodernamento/rifacimento della rete di distribuzione idrica vetusta da sviluppare attraverso un programma di verifica perdite”,  reclamando fondi, nostri, per coprire le falle della sua improvvida gestione – visto il contesto è d’uopo definirla scialacquatrice, e approfittando della splendida opportunità,  per aumentare le tariffe, ridurre i servizi, aggiudicarsi risorse necessarie a sedare appetiti compulsivi della macchina clientelare e degli azionisti provati.

A volte sorprende la solerte efficienza con cui una manica di sciagurati e ignoranti avventurieri abbia saputo, su ordinazione, creare un contesto di leggi, misure, espedienti, acrobazie giuridiche – ma loro le chiamano riforme o interventi di semplificazioni, accortamente predisposto per organizzare un sistema di scatole cinesi, di enti e società costituiti per dare forma a una miriade di soggetti inabilitati a fare ma abili a spartirsi dividenti, incarichi, consulenze.

Così l’unica conclamata abolizione, l’unico sacrificio alla divinità della guerra alla burocrazia sembra essere quella delle province. Il fatto è che a essere aboliti siamo stati noi: in una serie di consultazioni  passate sotto totale silenzio come atti impuri e vergognosi, a votare per il rinnovo di 45 Province  non sono stati infatti i cittadini ma alcune migliaia di sindaci e consiglieri comunali, così aggiungendo le sedi in cui si è votato da un anno e le 10 Città Metropolitane che non sono Province solo perché hanno cambiato il nome,  107 erano e 107 sono, in compenso sono diminuiti i fondi, mentre restano competenze che le anime morte, gli zombi non possono affrontare, dalla viabilità alla sanità all’ambiente.

La Cgil ha opportunamente pubblicato dei dati:  le risorse (nelle Finanziarie del 2015 e del 2016 hanno subìto un taglio pari a due miliardi)  per la manutenzione ordinaria delle strade sono scese del 68% e i fondi per la manutenzione straordinaria dell’84%. La polizia provinciale, incaricata di vigilare sull’ambiente, è passata in otto anni da circa 2700 effettivi a 700. I fondi per quel 13% di scuole a carico delle Regioni sono scesi del 20% anche se gli istituti   sono aumentati di un quinto. Ma a farla davvero da padroni sono oltre 350 organismi intermedi tra Ato (ossia Ambito territoriale ottimale) rifiuti, Ato idrici, autorità di bacino e consorzi di bonifica che arrivano a 496 considerando quelli creati dalle regioni autonome, per non parlare dei circa 3 mila enti tra consorzi e partecipate e delle 30 mila stazioni appaltanti, con costi di milioni di euro tra spese di funzionamento e stipendi per revisori contabili e dipendenti.

L’Italia Provinciale era diventata un problema, meglio era farla diventare l’Italia Europea, magari replicando su scala locale  quella macchina mostruosa azionata per ridurre la democrazia incrementando la burocrazia, moltiplicando i livelli decisionali formali per estromettere i cittadini dalle scelte,  avvelenando e facendo evaporare l’acqua pulita per affondarci nel fango tossico, togliendo l’ossigeno della libertà e dell’autodeterminazione.