Sono sistemi adottati anche da vari social che alla fine producono ricavi giganteschi da questa trasformazione del web in prateria di vendite e di spot: una cosa a cui siamo abituati, ma che diventa nefasta quando dal piano puramente commerciale si scivola in quello politico come è accaduto nella primavera scorsa, quando Google è scesa in campo a fianco dell’informazione maistream decidendo di utilizzare un nuovo e particolare algoritmo per rendere più difficile agli utenti l’accesso a siti considerati portatori di fake news o di complottismo, mentre si è reso possibile aglòi utenti istituzionali “segnalare” contenuti non in linea con la narrazione corrente, ovvero di far vincere sempre “contenuti più autorizzati” come scrisse la major in un comunicato che è un capolavoro di pensierismo unico. I risultati sgraditi non vengono eliminati, ma messi alla quarta o quinta pagina in modo che soltanto i certosini sappiano rintracciarla. Insomma la forma principale del controllo dell’informazione nelle società cosiddette libere dove non ci si affanna a cancellare, ma a marginalizzare.
Già questo dovrebbe provocare almeno un po’ di disgusto in chi è ancora in grado di pensare, ma la cosa diventa molto più grave nel momento stesso in cui non viene data alcuna definizione di complottismo o di falsa notizia, per cui il tutto si sostanzia in una generica e variabile possibilità di censura sul mercato dell’informazione, secondo le stesse linee di azione utilizzate da Google nel manipolare le ricerche e orientarle verso il suo servizio di shopping. Si è presa una multa da 2,7 miliardi per questo, ma di ceeto nessuno la sanzionerà per la censura politica che anzi è la benvenuta.
Infatti in appena tre mesi dalla messa in funzione della nuova “filosofia” si riscontra una
Ma che questa fosse la strada segnata appare chiaro da anni e basta andarsi a rileggere le parole brevi, enigmatiche e imbarazzate di Robert Boostin inviato di Google al simposio internazionale sulla libertà di espressione, organizzato dall’Unesco nel 2011: una sequela di elusioni, di vacuità e di vanterie sul ruolo di Google in Cina e nell’Iran nella tutela dei dissidenti. Possiamo facilmente immaginare, ma purtroppo nessuno gli domandò se la definizione di “dissidente” si attagliasse anche a un americano sotto il Patriot Aact che fosse fatto oggetto di indagini sulle proprie opinioni da parte dell’ FBI e non della polizia cinese o iraniana. Del resto cosa avrebbe potuto dire visto che appena pochi giorni prima Google aveva chiuso l’account su You tube di Cubadebate e cancellato i 400 video – confessione del terrorista Luis Posada Carriles, un ex agente della Cia che aveva chiesto “il pagamento per i servizi che comprendevano l’attentato in pieno volo sull’aereo di linea della Cubana de Aviacion nel 1976, e un’ondata di attentati in località turistiche dell’ isola nel 1997″? Per carità già allora non le piacevano le notizie scomode .