Fate una prova: andate su Google, cercate una qualunque parola, memorizzate i risultati della prima e seconda pagina e copiateli in una cartella. Poi quando vi capita di poter mettere le mani su un altro computer ripetete esattamente l’operazione e vedrete che i risultati sono completamente diversi. Gli algoritmi di ricerca che hanno reso famoso Google e ne ha fatto un golem del web hanno un rovescio della medaglia ovvero si adattano a quello che il sistema pensa che voi stiate cercando non a quello che cercate e dunque mostra cosa diverse a utenti diversi. E’ un sistema che pare facilitare di molto le cose all’inizio, ma che a lungo andare vi crea una bolla di navigazione che può essere può essere quanto mai riduttiva e che in definitiva si rivela l’idea per la diffusione di contentuti publicitari di ogni genere, espliciti o nascosti.
Sono sistemi adottati anche da vari social che alla fine producono ricavi giganteschi da questa trasformazione del web in prateria di vendite e di spot: una cosa a cui siamo abituati, ma che diventa nefasta quando dal piano puramente commerciale si scivola in quello politico come è accaduto nella primavera scorsa, quando Google è scesa in campo a fianco dell’informazione maistream decidendo di utilizzare un nuovo e particolare algoritmo per rendere più difficile agli utenti l’accesso a siti considerati portatori di fake news o di complottismo, mentre si è reso possibile aglòi utenti istituzionali “segnalare” contenuti non in linea con la narrazione corrente, ovvero di far vincere sempre “contenuti più autorizzati” come scrisse la major in un comunicato che è un capolavoro di pensierismo unico. I risultati sgraditi non vengono eliminati, ma messi alla quarta o quinta pagina in modo che soltanto i certosini sappiano rintracciarla. Insomma la forma principale del controllo dell’informazione nelle società cosiddette libere dove non ci si affanna a cancellare, ma a marginalizzare.
Già questo dovrebbe provocare almeno un po’ di disgusto in chi è ancora in grado di pensare, ma la cosa diventa molto più grave nel momento stesso in cui non viene data alcuna definizione di complottismo o di falsa notizia, per cui il tutto si sostanzia in una generica e variabile possibilità di censura sul mercato dell’informazione, secondo le stesse linee di azione utilizzate da Google nel manipolare le ricerche e orientarle verso il suo servizio di shopping. Si è presa una multa da 2,7 miliardi per questo, ma di ceeto nessuno la sanzionerà per la censura politica che anzi è la benvenuta.
Infatti in appena tre mesi dalla messa in funzione della nuova “filosofia” si riscontra una drastica diminuzione di nuovi accessi a siti della sinistra e del progressismo come è saltato fuori con la polemica durissima del World Socialist Web Site, un portale che esiste da vent’ anni e che in tre mesi da fine aprile e fine luglio, ha visto diminuire i nuovi accessi del 70 per cento. Più o meno la stessa cosa è accaduta con altri 14 siti messi in una lista nera dal Washington Post e dal New York Times, con la partecipazione della stessa Google. Visto il periodo si tratta sempre di pagine che contrastano la verità ufficiale di Trump come agente di Putin e si tratta di WikiLeaks, Alternet, Counterpunch, Global Research, Consortium News et Truthout. Anzi non c’è dubbio che la neo censura conclamata del web sia nata sotto l’assillo di dimostrare l’indimostrabile e di evitare il deterioramento di assiomi, essi sì di uno sconcertante complottismo ciarlatano, costruiti per impedire che la generazione di caos e di guerra prodotto dal nuovo medioevo multinazionale, possa subire una battuta di arresto. Naturalmente le organizzazioni che dicono di difendere i diritti democratici come l’Unione americana per le libertà civili e la ormai famigerata Amnesy international, non si sono accorte di nulla, prova che si tratta di estensioni improprie del potere Usa sia bianco, grigio o nero.
Ma che questa fosse la strada segnata appare chiaro da anni e basta andarsi a rileggere le parole brevi, enigmatiche e imbarazzate di Robert Boostin inviato di Google al simposio internazionale sulla libertà di espressione, organizzato dall’Unesco nel 2011: una sequela di elusioni, di vacuità e di vanterie sul ruolo di Google in Cina e nell’Iran nella tutela dei dissidenti. Possiamo facilmente immaginare, ma purtroppo nessuno gli domandò se la definizione di “dissidente” si attagliasse anche a un americano sotto il Patriot Aact che fosse fatto oggetto di indagini sulle proprie opinioni da parte dell’ FBI e non della polizia cinese o iraniana. Del resto cosa avrebbe potuto dire visto che appena pochi giorni prima Google aveva chiuso l’account su You tube di Cubadebate e cancellato i 400 video – confessione del terrorista Luis Posada Carriles, un ex agente della Cia che aveva chiesto “il pagamento per i servizi che comprendevano l’attentato in pieno volo sull’aereo di linea della Cubana de Aviacion nel 1976, e un’ondata di attentati in località turistiche dell’ isola nel 1997″? Per carità già allora non le piacevano le notizie scomode .
Chi e’ interessato puo’ scoprire o berificare chi controlla l canali di informazione
https://ronabbass.wordpress.com/2011/03/26/jewish-control-of-the-internet-facebook-google-youtube-et-al/
Negli ultimi due anni i grandi imprenditori digitali hanno superato ogni indicatore di potenza compatibile con la dimensione privata, insidiando direttamente l’autonomia e la sovranità dei poteri verticali. Non solo istituzionali, ma anche economico-finanziari, che nel sodalizio con lo Stato si erano fatti classe dirigente. Forse il segnale rivelatore è stato il simultaneo cambio di rotta di tutti i principali gruppi tecnologici del mondo, che in pochi mesi hanno sostituito al proprio vertice i manager di estrazione economica con figure provenienti dal ambito dell’intelligenza artificiale e delle neuroscienze. Riecheggiando un truce slogan di metà anni Settanta, è l’attacco al cuore dello Stato. Cominciamo dai soldi.
Da oltre dieci anni abbiamo consegnato ogni pulsione del sistema finanziario mondiale ai bots che trattano, alla velocità di tre decimillesimi di secondo, il 75% del traffico titoli su tutte le piazze mondiali. Lo high frequency trading è il baluardo dell’automatizzazione a opera di un algoritmo; nonché il motivo per cui oggi anche i maggiori dirigenti di banca o di fondi d’investimento prima di incontrare i consigli d’amministrazione consultano i loro consulenti di calcolo.
La domanda a questo punto è: vi pare plausibile che forze tecnologiche del tutto imprevedibili possano alterare un’elezione? E soprattutto: chi ha utilizzato queste forze con profitto può pensare di restituire il bastone di comando ai tecnici e limitarsi a godere della sua momentanea vittoria? Cosa potrebbe accadere alle prossime elezioni in Francia o in Germania? O fra quattro anni in America, magari in uno scontro all’ultimo bit fra Trump e Zuckerberg?
Altro che confitto d’interesse. Siamo alla riproduzione in laboratorio della merce sociale più pregiata: il consenso. Questo oggi è il vero tema: la riservatezza e la separatezza delle attività algoritmiche che attraversano la nostra vita. Nessun potere prescrittivo e predittivo – pensiamo alla scienza medica o alle tecniche formative – è mai stato appannaggio di un numero così ristretto di individui che operano su una massa così sterminata di utenti.
In linea con le tradizioni politiche delle democrazie occidentali, ci pare lecito chiedere che anche l’algoritmo, come il potere di formazione, di guarigione, di informazione, siano sottoposti al vincolo della trasparenza e del controllo pubblico. L’algoritmo è a tutti gli effetti uno spazio pubblico, per la sua capacità di incidere sull’umanità.
http://www.openlabs.it/home/cultura-digitale/l-algoritmo-comanda-il-mondo
Resistere agli algoritmi o lasciarci trasportare – un po’ rassegnati – dalla loro bolla trasparente? Il problema non è tanto il codice ma chi ci sta dietro. Gli algoritmi veicolano gli specifici assunti, obiettivi e punti di vista dei loro creatori e finanziatori – due su tutti: la massimizzazione del profitto e la riducibilità della complessità umana a un numero limitato di categorie relativamente stabili. La cultura algoritmica risultante, pertanto, è una cultura “normalizzata”, epurata da quelli che in gergo statistico sono gli outlier, gli elementi atipici e difficilmente prevedibili. La pratica del potere algoritmico è insita nella sua opacità. Un’opacità che riguarda sia l’incessante lavoro computazionale di raccolta ed elaborazione di dati personali, totalmente invisibile all’utente, sia la formulazione matematica della maggior parte degli algoritmi online – tenuta gelosamente segreta dalle aziende proprietarie e soggetta a continui cambiamenti nel tempo.
https://www.che-fare.com/potere-algoritmi-societa/
Mentre strillano libertà…pensano come fare per limitarla. E di molto. I fascio-capitalisti, padroni del mondo, non demordono!