Anna Lombroso per il Simplicissimus

C’è un posto nella Padania opima nel quale ogni abitante ha diritto ai suoi 12 metri quadri di centro commerciale. Ce ne informa il gruppo di architetti, fotografi, giornalisti, artisti, scrittori che hanno aderito alla chiamata degli organizzatori del Tour del disastro, la gita attraverso quella “città diffusa” che si estende dai confini del Piemonte sino alle pendici dei Colli Euganei, dentro a Lombardia, Emilia, Romagna e Veneto e che non ha nulla né dei tradizionali centri urbani né delle loro periferie, fatta com’è di centri commerciali, rotonde, bretelle svincoli autostradali, villette a schiera, parcheggi, cantieri abbandonati, capannoni per lo più senza finestre perché all’interno si consuma lavoro nero e disumano.

E poi   cave, discariche,  outlet e vecchie cascine, condomini e  giardinetti stentati, bar, paninoteche, centri sportivi, parchi acquatici, discoteche, palestre e centri massaggi, sexy shop, night club, ma anche chiese di cemento che paiono bunker antiatomici e due simboli monumentali e sinistri: Zingonia, l’aberrante utopia di Zingone, città ideale  di un imprenditore megalomane e spericolato ridotta a inquietante distopia percorsa di frequente da operazioni di polizia per via della sua recente vocazione di Scampia del Nord e la BreBeMi, celebrata opera che doveva allegoricamente rappresentare  il successo della formula del project financing a carico di dinamici investitori privati, mostruosa macchina mangiasoldi pubblici, con le sue corsie deserte, le sue tariffe care, il troppo cemento senza aree di servizio a fronte di quasi 1000 ettari di suolo agricoli asfaltati. In verità il vero monumento, il tempio innalzato in onore della teologia del  mercato è l’insediamento Pip di Orzinuovi  con la magnificenza dei suoi archi di trionfo e portali, i suoi sterminati parcheggi,   ma perfino con un monumento agli alpini, proprio come se fosse un paese vero, venuto su un po’ alla volta nei secoli a sua imitazione con la piazza e la statua al centro a perenne memoria in un posto senza storia, senza passato e dunque senza futuro.

Così è più facile capire l’accanimento che il governo e il ceto politico esercita  nei confronti dei terremotati del Centro Italia e delle loro geografie, frutto del risentimento  per chi non vuole uniformarsi a una ideologia perversa applicata anche al territorio, all’abitare, alla cittadinanza che si nutre a un tempo di tradizione e storia e di aspettativa e futuro:  perché non se ne vanno, perché non cedono alla delusione,  alla solitudine, all’espropriazione  e cercano di rifare le loro case, le loro stalle, le loro vite dove  erano e non come erano  ma addirittura meglio, più sicure e meno vulnerabili.  Perché non si arrendono a diventare i figuranti di un parco tematico, i personale di servizio di una disneyland, le guide di un polo dei pellegrinaggi del travel a sfondo religioso , che non devono disturbare con la loro presenza l’ambientazione per selfie ricordo del viaggio in quella che sta diventando, tutta, una periferia dell’impero, che può aspirare solo a essere attrattiva turistica, merce da comprare e consumare sotto forma di paesaggio, patrimonio immobiliare, abitativo e monumentale, artistico e culturale.

È facile prendersela con loro, con quella diaspora di persone, esistenze, attività, con quella cittadinanza diffusa che fatica a mettersi insieme per contrastare soprusi e ingiustizie, il cui bacino elettorale interessa poco  anche in occasione delle fantasiose primarie, la cui voce sale ma viene subito zittita in occasione di visite pastorali. Sono come le periferie, lontane dal centro, marginali, escluse, sempre più povere  e prove di servizi, trasporti, istruzione, assistenza.

Il fatto è che sono l’anticipazione di quel che siamo destinati a diventare, spinti fuori e remoti perché i “centri cittadini” con la possibilità di usufruire dei beni comuni, di godere di bellezza e sapere, di mettere a frutto l’investimento che abbiamo fatto in lavoro e tasse non ci spetta, monopolio esclusivo di chi ha e esige di più, di chi vive nel ridotto cono di luce del sole imperiale, dai vertici alle fedeli intendenze, contente di prestarsi ìn stato di volontaria servitù per conservare, rendite di posizione, prestigio e potere, sia pure miserabile.

E sempre di più per garantirsi, per assecondare l’avidità dei padroni e per farsi giustizia quando non si confezionano leggi su misura, oltraggiano o interpretano quelle che ci sono in modo arbitrario e discrezionale attivando perfino al paradosso comicamente irresistibile di violare anche quelle che hanno loro stessi novellato quando non è al loro servizio, come nel caso della nomina dei direttori di 5 importanti musei (ne ho scritto qui: https://ilsimplicissimus2.com/2017/05/26/grazie-tar-fuori-i-mercanti-dai-musei/) che per loro insindacabile volere dovevano appartenere alle élite dei manager più che degli studiosi, degli esperti di marketing più che dei ricercatori, dei commercianti più che degli storici dell’arte.

Adesso stanno mettendo fretta a un altro provvedimento di  interesse privato, che favorirà la sopravvivenza di un bel po’ di quelle brutture già obsolete sul nascere, di quelle archeologie commerciali già in rovina  prima di essere finite, di quelle opere tirate su “con lo sputo” con il “cemento come acqua”, come apprendiamo da intercettazioni scomode che presto passeranno alla clandestinità a proposito di trafori e tunnel oggetto di creste milionarie.

Si tratta del Ddl Falanga che sta per essere calendarizzato per il secondo passaggio alla Camera che reca “Disposizioni in materia di criteri per l’esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi”, un provvedimento che secondo il suo promotore va salutato come necessario a  ‘rendere più fluide le procedure e sanare l’ingiustizia provocata da una legge della regione Campania del 2003 che ha illegittimamente bloccato un condono edilizio’. E  che invece di dettare misure più stringenti per demolire sul nascere l’abuso e per commissariare quei comuni  che sono venuti meno al mandato di servizio  nell’adottare strumenti urbanistici o nell’eseguire le demolizioni, legittima e  legalizza  in modo permanente l’abusivismo con effetti futuri permanenti, introducendo il principio opinabile e discrezionale dello “stato di necessità” che permetterebbe  il blocco delle demolizioni degli immobili abusivi indipendentemente dalla loro destinazione d’uso, purché abitati o utilizzati,   anche se sorti nelle aree sottoposte a vincolo ambientale ed archeologico.

Tutti quelli che non vogliono essere confinate nella periferia dell’ubbidienza e del brutto, è bene che ricordino che la bellezza non basterà a salvarli se non si riprenderanno nelle mani responsabilità, doveri e diritti.