usuraioUno dei guai del berlusconismo, caduto in contemporaneo con la definitiva colonizzazione del Paese, è stato quello di perpetuare e potenziare una delle illusioni più radicate ancorché più irrealistiche, ossia quello della “destra europea”, di un liberalismo etico ovvero di un capitalismo corretto e onesto, in contrapposizione con quello opaco e corrotto di stampo nazionale. L’idea diffusa a piene mani in maniera così sospetta da apparire quasi come la creazione di un alibi, sarebbe che in realtà il liberalismo, ossia la tradizionale espressione politica del capitalismo, si basi sul rispetto delle regole e addirittura su uno Stato forte nel farle rispettare. Certo è singolare che fino a qualche decennio fa l’unica regola effettivamente esplicitata dagli ideologi di quella parte fosse la sorveglianza anti monopolistica che disgraziatamente è del tutto incoerente con i principi smitiani & c , anzi rivela le contraddizioni palesi e i limiti di una teoria perpetuasi oltri i limiti della sua funzione storica, divenendo un totem dipsonibile ad ogni tipo di sciamanesimo imperialista e reazionario. Lo stesso Croce che pure era uno dei priori della parrocchia  per quanto riguarda l’Italia, si rendeva conto che qualcosa non funzionava e scrisse negli anni del dopoguerra che ” il liberalismo non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza”.

L’ideologia ufficiale corrisponde infatti solo a una fase capitalistica, non alla sua essenza, tanto che certe visioni ottocentesche alla Einaudi nelle quali l’ “impero della legge” si accompagna alla libertà di mercato, sono state giustiziate ampiamente dal neo liberismo americano, benché da noi sopravvivano ancora radicate illusioni secondo le quali tutto funzionerebbe a meraviglia se non ci fosse una corruzione pervasiva e dilagante. Purtroppo come sappiamo bene chi ha le risorse economiche fa anche le leggi, (pensiamo solo a quelle che hanno depenalizzato di fatto i reati dei politici e dei loro referenti imprenditoriali) dunque in un certo arco di tempo la legalità diventa puro fatto formale, autoctisi legale dei ricchi.

Abituati ad orecchiare qualcosa che prende il nome di etica del capitalismo è difficile sottrarsi a queste suggestioni che poi lavorano nel sublimine, ma in realtà il capitalismo nasce come fenomeno intrinsecamente corruttivo e non ringrazierò mai la buona sorte di essere incappato nel mio primo anno di università nelle lezioni del medioevalista Ovidio Capitani che teneva un corso sulla secolare disputa tra banchieri e chiesa cattolica sul concetto di usura, dal quale si può evincere come fin dalla culla il capitalismo ha avuto una natura eticamente ambigua. Come forse qualcuno sa la Chiesa in origine riteneva peccaminoso esigere un interesse per il prestito di denaro, non solo per ragioni religiose, ma perché secondo il pensiero della Scolastica, che seguiva il dettato di Aristotele,  il denaro svolgeva solo  la funzione di unità di conto, era “sterile”, rompeva il legame tra ricompensa e lavoro. Dunque non si può ricavare valore dal semplice scambio di esso. Tuttavia la crescita impetuosa del capitalismo mercantile, soprattutto in Italia, epicentro del cattolicesimo cominciarono a cambiare le carte in tavola soprattutto all’epoca delle prime crociate: dapprima si cominciò a dire che l’usura era lecita se applicata agli infedeli, poi l’usura stessa comincia ad essere distinta dal ” giusto interesse” che in realtà non viene mai determinato concretamente, ma affidato per così dire al mercato, al caso per caspo. La questione è  molto complicata, comprende molti capitoli, compresa la nascita e la formalizzazione dell’antisemitismo, ma in estrema sintesi, possiamo dire che l’interesse  sul danaro cominciò ad essere giustificato dal rischio del prestatore, ma anche e sopratutto dal fatto che il denaro prestato si traduceva in azioni che potevano rivelarsi un bene per la comunità. L’accumulazione del banchiere, il successo del mercante o del mastro di bottega, se non quello dell’usuraio stesso ( il quale spesso si incarva negli stessi personaggi)  diventavano di per sè un fattore positivo, a prescindere dalle azioni che concretamente ponevano in atto, ad eccezione di quelle contro la proprietà che era sacra a Dio assai più della dignità degli uomini.

Il fatto insomma che il perseguimento dell’interesse individuale produca sempre e comunque bene pubblico, capisaldo delle teorie liberali, nasce proprio allora, ma già fin dall’inizio sotto il segno di un equivoco, perché tale bene si produce anche in presenza di attività illegittime. E’ facile vedere come le concezioni economiche odierne non sono che un rigoglioso sviluppo sulle medesime radici, anche se ovviamente adattate a tempi e suggerite dai nuovi accumulutari di capitale: la ricchezza produce un bene collettivo ancorché derivi dallo sfruttamento del lavoro altrui e dalla sopressione dei diritti degli altri. Dunque non ci si può stupire se l’arricchimento più immorale conservi la sua dimenzione etica e in qualche caso anche salvifica. Persino nel calcolo del Pil si considera l’economia criminale e se questa portasse a uno suo deciso aumento si farebbe festa.

Perciò non dobbiamo affato stupirci dei crimini dei colletti bianchi, delle azioni indegne delle multinazionali, della distruzione del pianeta, del sempre maggior sfruttamento delle persone: sono fenomeni intrinseci a una visione che vede nel profitto illimitato e incondizionato la sua massima etica e acquistano preminenza nel momento in cui non trovano più significativi contrasti nè in altre visioni sociali, nè nel tradizionale mondo borghese sempre più travolto da inconsistenti visioni, spacciate attraverso dosi letali di puri slogan. Del resto l’approccio strettamente economico, non sociale o sociologico o umano, al crimine, risale già a i tempi di Bentham ed è stato rivitalizzato negli anni ’90 da Gary Beker uno dei massimi esponenti della scuola di Chigaco, grazie al quale possiamo ricordarci come le azioni economiche che creano ricchezza per pochi siano il massimo bene.