2bc497aMi chiedo come mai sia in atto una campagna così feroce contro chi osa mettere qualche paletto alla globalizzazione, compreso un uomo della destra profonda come Trump. E certo le spiegazioni possono essere molte, sia fumosamente ideologiche che miserabilmente concrete,  sia di ordine economico che politico visto che il mondo globale richiede “governance” e non democrazie, lavoro precario e sottomesso non diritti. Tutto questo però non giustifica del tutto un accanimento così generalizzato non solo nei vertici di comando, palesi o grigi ma anche tra i ceti ad essi afferenti.

Così per tentare una spiegazione comincio con un piccolo esempio personale, quasi un apologo: tempo fa ho comprato on line su un noto sito molto gettonato in Italia per le cose di arredamento, una serie di luci a led di una ditta svedese a un prezzo di 30 euro più il trasporto. Quando sono arrivate, con inusitato e inspiegabile ritardo, mi sono accorto di aver commesso un errore, ovvero di aver preso luci per interni quando invece mi occorrevano per esterni e questo mi ha spinto ad andare a fondo sul “prodotto svedese” che in realtà come ci si può immaginare, presenta sulla scatola una scritta molto piccola e nascosta: Made in China (come molti pezzi della Volvo del resto) e presumibilmente la Svezia non l’ha nemmeno sfiorata per sbaglio visto che la gestione magazzino costa e le merci sono spedite direttamente dal celeste impero.

Bene a questo punto sono mi sono incaponito e sono andato su Alibaba dove ho scoperto che il medesimo prodotto, peraltro abbastanza curato, costa 2,50 dollari per cento pezzi e 2,30 per duemila. Da notare che questa cifra quasi 15 volte inferiore al prezzo svedese contiene già il guadagno della fabbrica produttrice e quello della stessa Alibaba. Dunque esiste un marchio, anzi un brand  del nord Europa che campa lautamente vendendo oggetti ( li ho trovati praticamente tutti sul sito cinese) che più o meno, ma soprattutto più, hanno un ricarico inimmaginabile prima della globalizzazione, per di più non producendo il becco di nulla, assemblando in qualche raro caso e facendo esclusivamente una semplice ed elementare operazione di compravendita, anzi di marketing come si usa dire per togliere a tutto questo il sapore bottegaio e proiettarlo nel magnifico mondo dell’eufemismo anglofilo. E questo vale, mutatis mutandis, per tutti i settori produttivi, per tutti gli oggetti di culto che formano il vitello d’oro contemporaneo, compresi quelli più avanzati e di più antica tradizione industriale.

Certo ho scoperto  l’acqua calda perché è a questo che serviva la globalizzazione: a trasferire attività produttive in luoghi con costi del lavoro bassissimi e per rivenderle poi a prezzi americani ed europei, moltiplicando e concentrando così lo sfruttamento in pochissime mani. Ma se le conseguenze di tutto questo sull’occupazione, sui salari, sui diritti del lavoro, sulla stessa struttura sociale e istituzionale sono ormai evidenti nonostante il continuo tentativo di nasconderle con le parole d’ordine della competizione, del sogno e del successo e con il gioco delle tre carte,  forse non è del tutto chiaro un altro effetto: i profitti balzati alle stelle a partire già dagli ultimi anni ’80 hanno di fatto finanziarizzato l’economia e trasformato la complessità dei saperi legati alla produzione nella più semplice markettizazione e in un diffuso dilettatismo. Naturalmente la globalizzazione così intesa, quale operazione di puro mercato era come un prendi i soldi e scappa, perché pian piano i salari nei Paesi produttori sarebbero saliti, mente in occidente sarebbe aumentata la disoccupazione e dunque sarebbe calata la domanda, ma ormai l’economia aveva cominciato a drogarsi con dosi sempre più alte di denaro fasullo e comunque parassitato ed è per questo che la semplice avidità di profitto si è trasformato in progetto politico, ovvero quello di smantellare completamente le conquiste del lavoro per ricreare all’interno le condizioni cercate all’esterno, ridurre  lo stato al minimo e la democrazia a vuota ritualità, reintrodurre elementi autoritari e di repressione per resistere alle conseguenze di questo disegno e imporre una sorta di oligarchia, di governance globale, sia pure a direzione e controllo americani.

Anche così ovviamente non funziona e sotto molti aspetti: i Paesi investiti dalle localizzazioni hanno fatto rapidi progressi e ora si pongono come rivali planetari anche sul piano della tecnologia che di fatto viene prodotta lì ad onta dei brand di sapore occidentale, riportare tutto o anche parte in occidente avrebbe costi stratosferici e probabilmente richiederebbe di aspettare anni prima di riformare competenze in numero sufficiente, ma soprattutto bisognerebbe pensare a un ritorno a profitti più modesti, a un cambiamento radicale di modalità sociali, a una disgregazione della dittatura finanziaria, a un ritorno di politica. I ceti che in qualche modo hanno tratto vantaggio dalla globalizzazione, ancorché numericamente modesti, non molleranno mai, anzi preferiscono accelerare e andare avanti alla cieca fidandosi delle illusioni e persino delle rassegnate disillusioni che hanno creato e della mentalità subalterna che hanno inculcato in due generazioni. Preferiscono pagare – come alla Cesa di Stradella, che si dedica proprio alla logistica delle merci e di proprietà olandese . americana – salari da 300 euro al mese, limite record raggiunto anche con sistemi truffaldini e pagati in moneta rumena, divisa con la quale pagherei tutti gli euristi, sicuri che la disoccupazione e la resa alla precarietà  non farà mancare loro le braccia, che i sindacati non faranno più di tanto, che avvilenti governi come quello del conticino Gentiloni ricattato dal guappo Renzi, non faranno proprio nulla se non far sì che la legislazione protegga ancor meglio gli schiavisti. Finché dura naturalmente, anzi finché glielo permetteremo sia sul piano politico, sia accettando di pagare con i soldi rimasti parassiti di ogni specie.