Bluj_emmanuel-macronLa campagna elettorale francese è lo specchio dei tempi o meglio rappresenta lo stadio di passaggio tra la democrazia e il concetto di governance, ovvero la gestione della società da parte di una elite cooptata che opera con criteri e metodi aziendali: in effetti tutta la geografia politica si è spostata dalle coordinate destra – sinistra a quelle che contrappongono governance e partecipazione. Si tratta di un cambiamento epocale iniziato in Usa dopo il crollo dell’Unione sovietica e facilitato dal grande potere che le multinazionali già avevano e dal sistema bipartitico che non esprimeva significative differenze e infine approdato in Europa, grazie alla Ue, trasformando l’alternanza dei partiti in un balletto attorno a politiche di fatto identiche.

Ora la Francia è chiamata a fare una scelta completamente dentro questo nuovo panorama, come si vede dalle mosse con cui le oligarchie, impaurite dalla Le Pen, hanno fatto fuori l’iniziale  vincitore in pectore François Fillon, colpevole non solo di aver espresso qualche lieve dubbio sulle sanzioni alla Russia, ma di essere un vecchio politico nato nella placenta del gollismo e probabilmente non del tutto disposto ad accettare il nuovo corso. Fin da subito esse avevano predisposto un candidato apparentemente a sorpresa, Emmanuel Macron, manager  di Rothschild imbucato fra gli ormai solo cosiddetti socialisti, improvvisato creatore di un movimento che ha la sede legale a casa del direttore di uno dei maggiori circoli della confindustria francese, l’istituto Montaigne. Tale direttore,  Henry de Castries, ex Ad del gruppo assicurativo Axa, è anche animatore della fondazione Francia – America, vero cavallo di troia del neoliberismo e presiede il comitato direttivo del gruppo Bilderberg. Non appena messo Fillon nella rete di un piccolo scandalo familiare peraltro conosciuto da almeno vent’anni, Macron è stato sparato nelle cielo delle presidenziale come enfant gaté della mitica crescita e della governance che dovrebbe garantirla:  Foreign Policy lo ha presentato al pubblico americano come “il politico francese anglofono e filotedesco che l’Europa si aspetta”. Una definizione così appropriata che è persino pericolosa nel rivelare i “valori” di Macron tanto che l’informazione francese si è ben guardata dal diffonderla.

Ma il caso Macron viene da lontano:  l’allora giovanotto  (oggi ha 39 anni)  fu cooptato nel 2077  da Attali nella “Commissione per la liberazione della crescita” della quale facevano parte 40 rappresentanti del grande capitale compresa Nesté e  Deutsche Bank e poco dopo fatto entrare come manager presso Rothschild, dove è diventato rapidamente milionario grazie alle commissioni incassate sull’ acquisizione di  Pfizer Nutrition da parte della Nestlè. Il tutto messo in moto e facilitato dalla sua cooptazione nel “Club de Gracques” organizzazione consacrata a una lotta senza quartiere con “lo stato sociale keynesiano” e perennemente indignato contro l’eccesso di democrazia che porta i lavoratori a eccedere nelle loro rivendicazioni. Come si vede con chiarezza cristallina qui abbiamo tutti i caratteri della “governance” nel loro pieno fulgore, a partire dalla cooptazione nell’elite per finire alla concezione del ruolo esclusivamente manageriale e subalterno della presidenza.

Per Macron la politica è la sua stessa storia, come si evince dalle frasi che sparge nella campagna elettorale molto simili, anche se più sfacciate a quelle del renzismo, tipo: ” Ci vogliono giovani che vogliano diventare miliardari” o “chi se ne importa dei programmi, ciò che importa è la visione”. Insomma il non senso cielo aperto  che acquista invece significato nella sua opera di ministro di Hollande dove ha operato per ogni tipo di deregolamentazione economica e per la famigerata Loi Travail. In un certo senso la crescita continua dei sondaggi favorevoli alla Le Pen ha dato agio alla elite oligarchica di osare la carta Macron nella convinzione che per evitare l’arrivo all’Eliseo del Front national, tutti dai repubblicani alla sinistra del cupio dissolvi  finiranno per votare questa vacuità canaglia, sostenuta del resto a gran voce dall’apparato mediatico. Di fatto Macron non ha bisogno di presentare programmi: è lui stesso il programma, l’impiegato della governance che sta facendo fuori la democrazia.