Banksy-–-Trolleys-Signed-moco-347x260Qualche giorno fa cercavo on line un attrezzino per fisioterapia e mi si è spalancato un mondo: su Amazon, Ebay e sui vari siti specializzati nel settore spicca principalmente un un unico apparecchio, con caratteristiche, specifiche tecniche  e forma identiche salvo il colore. Il prodotto tuttavia viene venduto con marchi diversi e a prezzi variabili anche del 100%, senza che nessuno sembri essersi accorto della cosa, anzi a leggere i pareri degli acquirenti si notano differenze di giudizio fra l’uno e l’altro marchio, denunciando fra l’altro come sia assai relativa l’utilità delle recensioni se non si conoscono le aspettative, la situazione  e il “mondo” di chi le scrive. Naturalmente non è certo l’unico caso in cui ciò accade, anzi diciamo che da quando i marchi sono diventati brand commerciali la cui produzione è delegata a terzi, sta diventando la norma, ma la cosa mi ha colto di sorpresa sia per il fatto che si rivolge a una nicchia abbastanza ristretta e dunque a un consumo più attento del solito, sia perché l’esiguità di alternative fa sì che numerosi apparecchi identici a prezzi diversi compaiano in una sola schermata, sia perché i diversi marchi di commercializzazione non hanno grande diffusione e dunque non hanno effetto di trascinamento.

Se si trattasse di un’unica azienda che tenta lo sghetto si potrebbe pensare a un utilizzo dell’effetto esca, ossia quel trucco che consiste nell’aggiungere a varie offerte una più alta per favorire la scelta delle alternative intermedie e non di quelle più economiche. Non è detto che grandi organizzazioni commerciali come Amazon possano sfruttare tale effetto, ma qui appunto non ci troviamo di fronte a un pacchetto di servizi e di prodotti nei quali si possa scorgere una qualche differenza anche illusoria, qui abbiamo una ridda di oggetti evidentemente identici. In questo caso più che i frutti di qualche singolo giochetto illusionistico degli stregoni del marketing, si intravvedono gli esiti di una sorta di declino cognitivo favorito, anzi guidato dall’overdose di comunicazione commerciale che ha investito le ultime due generazioni e le ha in qualche modo plasmate non solo con un linguaggio allusivo ed emotivo in grado di scatenare la natura desiderante  che divora  lo spazio della razionalità, ma ha anche fiaccato la capacità di attenzione e di concentrazione. Del resto è ormai noto che queste due fondamentali funzioni cognitive sono in rapporto inverso con l’iperattività e di certo non si può dire che manchino le spinte all’iperattività consumistica.

Sono partito con un esempio, ma se ne potrebbero fare milioni per esempio la propensione a spendere parecchie decine di euro in più per un lamina di alluminio attorno al cellulare che costa alla produzione quanto o forse meno di una lattina del medesimo materiale, cioè meno di 0,05 euro. O che ne so a comprare qualcosa sulla base unicamente di suggestioni senza alcun contenuto informativo come è ormai di rigore nella pubblicità delle auto e via dicendo. Del resto il progressivo venir meno della ragione dialogante è anche una necessità del mercato e una funzione del profitto: a ciò è dovuto l’abnorme proliferazione di oggetti del desiderio e di tecnologie distribuite col contagocce in una moltiplicazione dei pani e dei pesci letale per il pianeta, ma anche per il sensus sui perché questo meccanismo favorisce in maniera esplicita paradigmi di vita funzionali al mercato stesso e ai dividendi, alle sue lobby o gruppi di pressione, con poche relazioni con la realtà e/o le ricerche serie di cui si dispone. Una per tutte le mode alimentari basate su cibi più costosi o più alto valore aggiunto e che cambiano con velocità folle, anzi che finiscono col coesistere, esattamente come coesistono diversi interessi che le creano. Persino le patologie sono di tendenza. Anche qui si potrebbe costruire un’intera enciclopedia il cui valore apologetico consisterebbe nel mostrare come si sia passivi nel’introiettare i messaggi, salvo poi farne articoli di fede, come sia diffusa la rinuncia aprioristica ad andare oltre il messaggio dello spot o dell’esperto talvolta sedicente altre volte in squadra con i suoi referenti, ma soprattutto come sia possibile creare e far convivere nella stessa persona stereotipi opposti. Una dimostrazione del’efficacia della cognitività emotiva che rende arduo collegare in un insieme coerente le esperienze e i saperi e dunque agire in senso collettivo.

Siamo molto oltre il condizionamento dei modelli sociali e degli stili di vita di cui si parlava già all’inizio degli anni ’60, qui siamo alla formazione dell’homo spottensis nel quale tutto si riduce a brandelli, a lacerti, a tessere di puzzle: la cultura o quello che è rimasto si identica col trendy, la narrazione con la sequenza curiosa o l’orribile, il divertimento con lo sballo, la scuola stessa si traduce in pillole con i test a risposta ad imitazione dei quiz, la creatività in gioco da dilettanti, la serietà un’ostacolo, l’autonomia di pensiero in melting pot di frasi fatte  E’ chiaro che questa antropologia è come un macigno posto sulla strada di qualsiasi cambiamento o progresso la cui necessità viene avvertita solo quando si esce sconfitti dallo scontro con la realtà, con le conseguenze di questo  modo di essere : l’era del mercato è come una di quelle fasce legate attorno ai tronchi degli alberi per ingannare le processionarie che continuano a girare in tondo in cerca di qualcosa che non troveranno.