Sei mesi fa la commissione Europea inviò al governo greco un memorandum di 2000 pagine, tutto in inglese, riguardante una nuova legge fiscale destinata alla privatizzazione totale dell’economia e a trasferire a Bruxelles ogni decisione di spesa, con in più la pretesa che venisse approvato entro pochi giorni, nemmeno il tempo di leggere e di capire. Di fronte a un simile atto ci si sarebbe potuta attendere una ventata di indignazione e repulsa: dopotutto era passato poco più di un anno dal famoso referendum indetto dal cavial socialista Tsipras non per resistere alle pretese della Ue, ma nella speranza che fosse il popolo stesso a decretare la propria fine: come sappiamo non andò così, i greci disserro no, ignari che sarebbero stati traditi dal loro governo. Invece in questo ultimo caso il diktat europeo è stato accettato senza fiatare e probabilmente senza essere nemmeno letto.
Insomma sta accadendo il contrario di ciò che ci si potrebbe aspettare, di quella che viene considerata la dinamica naturale: più la Grecia va alla deriva, più crescono la disoccupazione, la precarietà, la povertà, più sprofondano salari e pensioni, più si distrugge lo stato sociale senza che questo faccia migliorare i famosi conti pubblici i quali anzi peggiorano denunciando il fallimento oltre che la reazionaria stupidità della Ue e più deboli si fanno i tentativi di liberarsi dalla morsa. A parte un governo fattosi totalmente pupazzo della troika, anche le proteste, le manifestazioni, gli scontri, le paiono diminuire e sono soprattutto espressione disperata delle varie categorie via via colpite, più che effetto di una protesta generale e di un unico obiettivo. Insomma più crescono i motivi di malcontento e di rabbia, più la voce sembra affievolirsi. Difficile da capire, anche se questa logica ribaltata si può intravvedere mutatis mutandis anche altrove, in Italia per esempio dove l’opposizione e le sue espressioni sociali, sindacali, politiche erano molto più vivaci al tempo di Berlusconi mentre è andata scemando man mano che i tempi si facevano più cupi e si susseguivano massacri e governi di burattini, forse più costumati e presentabili del Cavaliere, ma altrettanto se non più reazionari.
Difficile spiegarlo e a me non vengono in mente che lezioni di storia medioevale di Ovidio Capitani, il quale a studenti divenuti distratti spiegava non solo le origini del capitalismo e la battaglia ideologica e teologica su interessi e usura, ma anche le rivolte contadine che si svolsero dal 300 fino al ‘600, soprattutto nel centro Europa, talvolta di tale ampiezza da essere vere e proprie guerre come la Bauernkrieg che vide 300 mila insorti e 100 mila morti nella prima metà del ‘500. Ebbene queste jacquerie, questi tumulti dei ciompi, queste peasants’ revolt, spesso appoggiate anche dalla piccola nobiltà rurale, avevano una caratteristica in comune qualunque sia la chiave di pensiero con le quali le si vogliano interpretare: non scoppiavano mai in tempo di carestia o di scarsi raccolti, come sarebbero lecito aspettarsi, ma solo in periodi di vacche grasse. Il fatto è che le difficoltà e la povertà finiscono per mettere in primo piano le esigenze di sopravvivenza personale e familiare, per ottundere la consapevolezza della propria condizione ed anche quella dei rimedi possibili. Solo quando c’è un surplus e la corda dello sfruttamento si allenta c’è tempo e disponibilità al coordinamento e all’azione collettiva, come è dimostrato anche dalle rivolte cittadine che si ebbero dopo la peste nera o come lo stesso sviluppo delle lotte operaie durante e dopo la rivoluzione industriale, quando ogni vittoria nelle battaglie ne aumentava la coscienza e l’intensità, mentre ogni peggioramento delle condizioni ha portato a un progressivo abbandono delle battaglie. Se proprio si volesse individuare una costante, per carità sommaria, ma non futile tra ascesa e declino della battaglia sociale si potrebbe dire che in principio le lotte vengono condotte nella illusione di poter trovare un accordo con le classi dominanti, poi si arriva a una sorta di coscienza rivoluzionaria che individua negli assetti di potere la radice della disuguaglianza e tende perciò ad abbatterli e infine – se si subisce una sconfitta – ci si illude di trovare una soluzione all’interno dello status quo, anche se in maniera molto più subalterna e rassegnata rispetto agli inizi. E si torna a rifugiarsi nella propria singolarità.
Difficile individuare cause ed effetti in questo complicatissimo flusso che si mischia poi a condizioni ed eventi casuali o esterni, ma a me sembra che la vicenda greca ne possa essere un esempio e un monito: chi pensa che il peggioramento delle condizioni di vita porti di per se stessa a un aumento di conflittualità sociale consapevole e in grado di invertire la rotta probabilmente si sbaglia: la direzione verso la quale ci si incammina, grazie ai suggerimenti del discorso pubblico, è quella non di una guerra alla povertà, compresa la nuova povertà da lavoro, ma di una guerra tra poveri che rischia di diventare più intensa man mano che si diventa più poveri. Anzi l’egemonia culturale neo liberista ha rispolverato nella sua fumisteria alcuni concetti medioevali riguardo all’idea della povertà come volontaria e originata da un difetto dell’individuo: una concezione ormai così introietta da vaste aree della società che molti tentano di nasconderla dietro un linguaggio liquido e ambiguo o si auto colpevolizzano per per questo invece di chiederne conto a un pensiero unico assurdo e arcaico.
Forse è per questo che un l’ex ministro del lavoro nel governo Letta, oltre che numerologo di servizio effettivo permanente presso il neo liberismo, Enrico Giovannini, è capitombolato in una clamorosa gaffe nel corso di un’intervista: ha detto che “il nostro obiettivo era portare gli italiani alla soglia della povertà”. Più che una gaffe un lapsus freudiano.
Le voci di chi crepa di miseria si affievoliscono (dopo anni e anni di lapidazione) per logoramento, usura, paura e solitudine, si spengono ogni volta che cercano solidarietà a rigor di logica e basandola sulla speranza di un futuro migliore per tutti ma trovano solo muri di gomma, accuse ad personam, indifferenze variamente denominate, egoismi personali in cerca di sovrastrutture d’appoggio di bell’aspetto;per cecità e incapacità di vederci legati l’uno all’altro in quella che è (dovrebbe essere)la meravigliosa catena umana; rimandi di comodo ad ipotesi che non si concretizzeranno mai proprio a causa dell’ethos dominante che serve a perpetuare lo stato delle cose e allo stesso tempo a manometterlo nella sua parte vitale, sempre più avvitato su se stesso in modo che il punto di non ritorno si realizzi (e io credo si sia già realizzato) . Le voci si spengono dopo essere diventate urla che danno solo fastidio, senza essere state capaci di radunare attorno a sé nessuno che vi recepisse il suono dei diritti divelti non a titolo personale ma dal corpo sociale, a partire ovviamente dai più esposti economicamente, i più facilmente espungibili, i “colpevoli” secondo i darwinisti sociali ampiamente diffusi ovunque.
Se fosse vero quello che sostiene IlSimplicissimus, e potrebbe e spero vivamente di no, spero che arrivi una rottura di salvezza, uno sconquasso di giustizia, beh allora tutti finirete schiavi. E dico “voi” perché io grido già da anni la perdita di diritti, grido il mio diritto a vivere, esponendomi in prima persona lontana dalla tastiera, carne ossa e sangue, e l’iniziale fiducia di vedere gente concordare o prendere in qualche modo coscienza della tragedia in corso d’opera si è oggi trasformata nella dovuta presa d’atto che a nessuno gliene frega niente degli “altri”, anche quando sono consapevoli che i prossimi “altri” saranno proprio loro. Quindi dico “voi” perché io sono già a fine corsa, che una volta geenna si può solo rotolare via.
per capire in modo un po’ analitico:
Qualcuno è riuscito a sapere le motivazioni puntuali della bocciatura da parte della corte Costituzionale, del referendum abrogativo sul licenziamento illegittimo ??
Mariangelo Formenti ha scritto ( commento al post circa sole24 ore)
Crado che Tra jorge e Learco, Jorge abbia ragione quando dice che anche con la lira la popolazione italiana si sarebbe impoverita. Le svalutazioni competitive venvano scaricate sul mondo del lavoro, nel tempo la sua capacita di spesa sarebbe sempre diminuita, ed avrebbero chiuso i piccoli negozietti o le imprese artigianali presenti nei centri storici Viceversa ha ragione Learco quando dice che la concorrenza degli immigrati e degli extracomunitari , e di tante aree del mondo tra di loro, rende poco realistica la lotta di classe come ad esempio nel maggio francese.
@ Mariangelo Formenti, in qualche modo ti rispondo quì sotto, pur commentando il nuovo post
Mi trovo molto d’accordo, questa volta , con quanto dice mstr. Simplicissimus. Le lotte operaie avvengono quando il lavoro e sicuro, ben pagato, e ci si avvicina alla piena occupazione
Fu così negli anni 70, cioè sul finire del ciclo dei “Golden Age”. Quando tutto è precario, è c’è la concorrenza potenziale di tanti disoccupati, la gente non sciopera ed anzi il malessere generalizzato scatena le guerre tra poveri. Queste, vengono addirittura strumentalizzate dal capitale per rafforzare il proprio dominio, esso si serve di questa o quella fazione dei diseredati per mettere tutto in riga, nei termini in cui ad esso piace
Condizioni così estreme di crisi però, tendono a degenerare in una guerra generalizzata, come insegna la storia, essa è lo sbocco ultimo della crisi del Capitale. Toccato il fondo estremo della guerra, siamo all’altro polo che rende possibile la lotta sociale, come lotta contro la guerra oltre che per le condizioni di vita
La guerra è la via di uscita del capitale dalla sua crisi, con la a guerra avvengono enormi distruzioni di Capitale, si assiste ad una enorme svalutazione del Capitale stesso, impianti. industrie, centri di ricerca vengono distrutti nelle battaglie e nei bombardamenti
Arriva quindi la esigenza di ricostruire, ed i Capitali appartenenti alla fazione vincitrice possono di nuovo riprendere il loro processo di valorizzazione, sostituendo i capitali distrutti, anche nella ricostruzione post-bellica. Il problema però, e che la ricostruzione avviene su basi tecniche addirittura più avanzate di quelle di anteguerra (la guerra fa evolvere le tecnologie più velocemente), e dati i livelli tecnici attuali, oggi la crisi si ripresenterebbe immediatamente dopo una guerra anche di grosse dimensioni (a causa dell’aumento della composizione organica del capitale o rapporto tra tecnica ed il lavoro vivo, unica fonte di profitto)
Resta da chiedersi, mancando oggi la possibilità di lotte sociali basate sugli alti salari e sulla piena occupazione, dobbiamo davvero aspettare la guerra estesa e generalizzata per aspettarci una ripresa di lotta di classe dal basso ? (quella dall’alto verso il basso la vediamo costantemente..)
E’ una domanda alla quale io non sono in grado di dare una risposta, mi limito ad osservare che
Forse la lotta oggi non si deve intendere solo come lotta classica dei lavoratori come negli anni 70.. Data la frammentazione delle fabbriche sul territorio, la concorrenza imposta ai lavoratori a scala mondiale, le fabbriche non riescono essere più il luogo della nascita e della socializzazione della protesta,
Oggi la protesta si fa immediatamente politica, come in Grecia, dove lotte accesissime non nascevano affatto dalle classiche rivendicazioni di fabbrica,Mancando il collante della fabbrica però, in tali lotte l’egemonia è stata presa da forze al servizio del Capitale come Syryza, che hanno portato il popolo greco verso il falso obiettivo di restare nell’Euro, nel Capitalismo, come se questo potesse essere gestito come “Capitalismo dal volto umano” .
Evidentemente, c’è bisogno di una avanguardia dalle idee chiare, che si dia da fare per instaurare nella società una egemonia culturale delle posizioni radicalmente anticapitalistiche, e che sappia essere il centro di coagulo della protesta come prima riuscivano ad essere le fabbriche (anche mostrando il continuo avanzare verso la guerra). A queste condizioni ,forse e dico forse, é possibile che non degeneri tutto in una guerra tra poveri o sia riassorbito tutto all’interno degli interessi del Capitale come in Grecia è stato con Siryza
Ma è possibile immaginare qualcosa del genere se continuiamo ad affidarci, per la nostra emancipazione, alla fazione “Keynesiana” del Capitale? Questa ci portera alla catastrofe perche non può risolvere una crisi che la ha gia dimostrato di non poter risolvere ( proprio per questo si e passato al neoliberismo)
Se invece ci si vuole poi affidare a questa o quella fazione del Capitale, allora è inutile interrogarsi,sulle condizioni di possibilità della lotta sociale o di classe, come oggi giustamente si interroga Mrst Simplicissimus
Grandi banche internazionali e politici nazionali possono facilmente accordarsi per indebitare gli Stati e i loro abitanti.
In cambio di cifre digitate sui computer le banche ottengono beni e ricchezze reali: imprese e immobili, mentre i politici ricevono incarichi dirigenziali prestigiosi all’interno dei centri finanziari e carriere ben remunerate nelle istituzioni europee come la UE e mondiali come l’ONU.
Due articoli interessanti sui sistemi utilizzati dall’elite politico-bancaria per realizzare il saccheggio dei beni delle nazioni:
https://albertomicalizzi1.wordpress.com/2017/03/10/la-cassa-depositi-e-prestiti-sotto-attacco-partono-le-privatizzazioni/
https://albertomicalizzi1.wordpress.com/2017/03/17/si-orchestra-la-svendita-di-330-miliardi-di-crediti-bancari-bad-bankgood-profit/
Chi vuole , legga:
https://comedonchisciotte.org/forum-cdc/#/discussion/89690/goofynomics-il-filmato-del-professore-brasiliano
ha detto che “il nostro obiettivo era portare gli italiani alla soglia della povertà”. Più che una gaffe un lapsus freudiano.
chi vuole, legga:
https://vecchia-talpa.blogspot.it/2017/03/prima-era-vendita-oggi-ricollocazione.html
anche qui:
https://vecchia-talpa.blogspot.it/search?updated-max=2017-03-01T17:26:00%2B01:00&max-results=10