downloadForse non tutto è perduto. Forse l’appoggio sostanziale che ha ricevuto l’agitazione dei tassisti contro l’assalto delle multinazionali dello sfruttamento nonostante l’emersione grottesca dei soliti fascio capracottari, significa che qualcosa comincia a cambiare e che inizia timidamente a farsi strada la consapevolezza del futuro di impoverimento selvaggio e perdita di diritti che ci attende, nonostante il terribile panorama sia circonfuso di parole come produttività, concorrenza, vantaggio per i consumatori che in realtà sono pure costruzioni intellettuali prive di realtà se non nei loro aspetti negativi. Evito per il momento di alimentare una certa batracomiomachia da commessi viaggiatori e di analizzare – per esempio – il termine concorrenza che è solo un concetto limite irrealizzabile nel mondo concreto , una polpetta avvelenata data in pasto all’immaginario popolare. Intendo invece lamentarmi del fatto che persino gli antagonisti non riescano a sfuggire alla pessima gergalità neo liberista e parlino tutti, in relazione alla vicenda dei tassisti e di Uber di sharing economy o gig economy.

Essi sono trascinati nel gorgo e usano espressioni prive di radice semantica, che è linguisticamente un semplice segnaposto destinato a smorzare l’impatto della realtà e a circoscriverlo alle attività che si servono della rete, dando l’illusione ai più di esserne in qualche modo fuori. Qualcosa di molto diverso da quello dell’economia di sfruttamento che forse non sarebbe cosi coerente in termini marxiani, ma che restituirebbe la realtà delle cose molto meglio. In realtà  Uber o Foodora o Deliveroo non hanno inventato altro che un modo facile e nemmeno troppo fantasioso per lucrare milioni su lavoretti sottopagati e ultra precari, per sfruttare le difficoltà della gente, ma queste situazioni esistono eccome anche al di fuori della rete e si vanno diffondendo a macchia d’olio. Non si tratta in sé di un portato delle nuove tecnologie, bensì di una logica e di una degradazione dell’idea di lavoro che si espande grazie a queste ultime, ma che in realtà è anteriore ad esse e ne ha condizionato lo sviluppo e la regolamentazione o non regolamentazione ai propri fini. In altri contesti storici, quando le aspirazioni a un mondo migliore e le lotte erano ancora vive, la diffusione della prima rete globale, ossia quella telefonica non produsse questi effetti come invece avrebbe potuto benissimo fare.

I tassisti precari e di fatto schiavizzati c’erano anche prima nel Paese che ha dato origine a queste bolle e se è per questo c’era già anche l’idea di Uber che era in campo fin dagli anni ’80 pur non prevedendo rapporti di sfruttamento, cosa che invece ha cominciato a funzionare (ma molto meno che altrove) solo con la crisi economica. I 13 375 taxi di New York, uno ogni 622 abitanti, ossia una densità pari al 50% rispetto a Milano e Roma, tanto per far giustizia della solita immondizia da bar e da telefilm che gira, sono da decenni guidati da immigrati (pakistani soprattutto) che affittano la licenza a giornata, dopo aver superato un esame di 8 ore e senza alcun obbligo di conoscere la lingua. Il guadagno netto dopo 12 ore di lavoro si aggira sui 40 dollari, lordi ovviamente, e solo quando va alla grande perché è facile anche rimetterci. Di fatto si campa di mance. E così possiamo capire meglio taxi driver. Dunque Uber non ha fatto che estendere queste stesse logiche rendendo disponibile lo sfruttamento non solo agli immigrati di fresco, ma a tutti quei cittadini che si vedono costretti a fare i pakistani onorari.

E’ chiaro che chi davvero ci lucra non sono gli utenti che risparmiano appena qualche dollaro (almeno sino a che queste forme non saranno divenute monopolistiche), né gli autisti che guadagnano meno dei tassisti ufficiali pur avendo già il mezzo, ma chi li mette in comunicazione grazie a una app che sarà costata si è no una settimana di lavoro. Non si tratta più di padroni, ma di veri e propri feudatari con tanto di mezzadri e servi della gleba che campano sulla messa in mora di ogni regola e cavando fuori un profitto ulteriore e quasi interamente parassitario dai beni su cui si è già operato uno sfruttamento intensivo al momento della produzione e successivamente della vendita. D’impatto si ha la sensazione che domanda e offerta di servizi e di merci si siano liberati dalle intermediazioni di una volta e invece sta accadendo l’esatto contrario: pochi tycoon dominano tutto, rendendo di fatto ognuno impotente. Certo la tecnologia attuale è centrale  in questa opera di graduale esproprio, tuttavia non fa che rendere più veloce e razionale un processo già in atto concentrando gli utili su sempre meno persone. E questo vale per ogni settore dall’auto, alla casa, alla vendita al dettaglio. Però non chiamiamola sharing economy, ma economia schiavista a cui contribuisce il terziario politico incapace di mettere delle semplici ed elementari regole quanto meno per una più equa distribuzione dei redditi.