abu-ghraib-header1In psicologia viene chiamata dissonanza cognitiva e consiste nella presenza contemporanea di pulsioni, credenze ed eventi in contrasto fra loro che la persona cerca di conciliare in qualche modo. Normalmente  una realtà fattuale che mette in crisi l’universo di credenze personali o collettive dovrebbe portare a una revisione di queste ultime, ma spesso non è così, anzi ciò avviene raramente. Persino nella scienza e nel pensiero è un atteggiamento raro e solo quando proprio non è possibile sostenere in nessun  modo la coerenza fra idee e realtà si ha un cambiamento di paradigma. L’atteggiamento più frequente è quello di cercare attraverso interpretazioni magari contorte, memoria selettiva, adeguamento a menzogne evidenti di adeguare la realtà a ciò che si desidera.

Naturalmente se le differenze diventano troppo grandi o si arriva a cambiare le proprie convinzioni oppure il tutto sfocia in uno stato patologico nel quale la “difesa” ad oltranza dalla realtà porta a subire passivamente ogni narrazione anche la più improbabile, la meno consistente o la più ripetitiva, non rendendosi conto che essa è contraria ai propri interessi. E’ del tutto evidente ed empiricamente dimostrato  -faccio solo un esempio – che i tagli di bilancio portano a una depressione dell’economia e dunque a un aumento del debito, ma nonostante questo da un decennio ormai vediamo questa logica perversa squadernarsi come dottrina dell’austerità ovvero ossessione del debito con risultati catastrofici. Ora la domanda è se l’insieme di chi la propone e la impone soffra della medesima dissonanza cognitiva che porta le vittime ad accettarla evitando così di mettere in discussione le proprie credenze generali, oppure sia assolutamente coerente con obiettivi del tutto diversi che vengono tenuti nascosti, ancorché facilmente deducibili. La stessa cosa si potrebbe dire di mille altre cose, dall’euro fino alla ricerca degli esopianeti o alle stravaganti dottrine che sostengono ogni tipo di “alternativismo” consumistico, sostenuto con mano ferma e visibile da quei poteri che  sanno come tutto questo coacervo di religiosità deviante, mitizzazioni e mezze verità serve ad esorcizzare e a depotenziare la richiesta di cambiamenti sociali.

Tutto questo sarebbe tuttavia impossibile se il potere e i poteri tra loro legati non disponessero di tutta o quasi la comunicazione orientata a definire una realtà inesistente che in qualche modo attenui le dissonanze cognitive dell’era contemporanea. Faccio un esempio geograficamente lontano, ma psicologicamente vicino visto che viviamo pur sempre dentro i ricatti della paura: in Israele la quasi totalità della popolazione crede che esista Palliwood, ossia una sorta di Hollywood palestinese che attraverso migliaia di operatori con telecamera è sempre pronta pronta a documentare con false immagini e narrazioni devianti le violenze dei militari israeliani con la conseguenza di creare a propria volta un circuito questa volta reale e ben finanziato, in cui si cerca spesso in maniera del tutto surrettizia di dimostrare l’inconsistenza delle denunce ancorché evidenti. La cosa a mille chilometri di distanza suona assurda, ma in Israele è diventato normale perché è in gioco la posibilità di conciliare la propria visione delle cose con le violenze che effettivamente avvengono e che in qualche caso sono state filmate. Si tratta di un livello basico di  decostruzione narrativa del conflitto a fini di buona coscienza: quando non è possibile creare leggende di questo tipo si ricorre a strategie più sottili, come è accaduto dopo l’11 settembre dove la riproposizione anestetizzante del crollo delle Twin Towers, condotto quotidianamente per mesi interi, ha di fatto cancellato tutti quegli appigli che consentivano una visione critica degli eventi. Spesso l’iperrealismo accompagna l’irrealtà e favorisce la sua copertura narrativa, tanto che solo a distanza di 15 anni è stato possibile avanzare qualche dubbio sulla dinamica degli eventi e sul loro retroterra, senza perciò stesso essere accusati di fiancheggiamento del terrorismo.

Allo stesso modo la diffusione assillante delle foto delle torture ad Abu Ghraib ha avuto un effetto del tutto contrario a quello che si sarebbe potuti attendere da reazioni coerenti: le foto dei prigionieri, sempre coperti da cappucci per spersonalizzarli, hanno finito per immunizzare, dopo il primo scandalo iniziale, alla violenza estrema le opinioni pubbliche occidentali e in particolare di quelle anglosassoni direttamente implicate. Pur di non rinunciare al proprio immaginario di superiorità e di dominio hanno finito per considerare quelle immagini come umiliazione del nemico e sotto forma di neutrale “pathos figurativo”, aiutate in questo dal fatto che erano state studiate nei minimi particolari proprio a questi scopo: di significare il potere e allo stesso tempo evitare che lo scandalo  mettesse in crisi il paradigma americano con pochi danni collaterali, qualcosa che non sarebbe stata possibile se ciò che accadeva in Iraq fosse stato conosciuto attraverso una documentazione non “registica”.

Del resto la cosiddetta guerra al terrore è interamente costruita su queste suggestioni che costituiscono una sorta di supermenzogna che serve a proteggere un campo minato di bugie, parecchie delle quali alla fine vengono alla luce. Ma si ha una profonda fiducia che le tre generazioni nate sotto il segno dell’acquario preferiranno credere alle favole piuttosto che dubitare.

Piccola bibliografia:

William J. T. Mitchell Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi

Clément Chéroux Diplopia. L’immagine fotografica nell’èra dei media globalizzati: saggio sull’11 settembre 2011

Eishton Pallywood : The dark matter of the Zionist universe