Per decenni in tutto il mondo occidentale si è tentato di trasformare la scuola da luogo di formazione e di emancipazione così come era stata pensata da due secoli in una sorta di addestramento e preparazione al lavoro, modellando il tutto sul calco anglosassone nel quale le istituzioni scolastiche vertono attorno a due pilastri fondamentali: l’aggregazione ideologica e pragmatica dell’elite di comando oppure il rinvio diretto al job con il conseguente iper specialismo che spesso si configura come iper ignoranza oltre che come sostanza letale per l’elasticità e la tanto venerata creatività. Un panorama funzionale alla privatezza della scuola e dunque del sapere che tutti gli sciocchi non vedono l’ora di imitare anche perché la formazione culturale è ciò che il potere oligarchico teme di più.
Ma ecco che a metà del guado in quest’opera di distruzione della scuola come indispensabile elemento di costruzione di cultura e di cittadinanza sta cadendo un meteorite gigantesco: ovvero la progressiva scomparsa del lavoro, insidiato non solo dalla centralità assoluta del profitto che ha portato alla globalizzazione e dunque al trasferimento della produzione materiale in altri continenti, ma sempre di più anche all’automazione che comincia a falcidiare proprio quelle attività al cui avviamento è sempre più orientato il sistema scolastico. In appena dieci anni vengono calcolati decine di milioni di posti di lavoro in meno in Europa, a cominciare – tanto per mettere nel falò un argomento di giornata – dai tassisti sostituiti da sistemi di guida automatica per andare ovviamente alle attività industriali, ma anche terziarie, assistenziali e persino agricole. Per evitare un impatto troppo rapido e tragico bisognerebbe già da oggi fare l’esatto contrario di quanto viene predicato: ossia ridurre gli orari di lavoro, restituire una direzionalità economica allo Stato, aumentare i servizi correlati al welfare, rendere più salde le tutele e l’assistenza, adottare coerenti politiche monetarie, salutando caramente tutto ciò che lo impedisce, favorire alla disperata gli investimenti nei settori trainanti di questi nuovo mondo, cercando di sfruttare al massimo la rinata multipolarità mondiale. Non è una soluzione politica, è semplicemente buon senso, un cercare di non essere travolti, di salvare qualche zattera sulla quale ricostruire un futuro sociale anche se si tratta di buttare nel luogo più acconcio, solitamente di forma ovale, tutto il ciarpame neo liberista del quale siamo incrostati. Che già sarebbe un bel risultato per l’intelligenza e persino per il buon gusto visto che gli aedi prezzolati dicono che l’automazione ha sempre creato più posti di quanti non ne abbia tolti, non rendendosi conto della rivoluzione epocale alla quale siamo di fronte e nemmeno dei diversi punti di partenza storici che rendono completamente prive di senso le loro litanie. Probabilmente non sarebbe difficile creare un robot capace di allineare in sequenze opportune luoghi comuni in maniera da poter fare a meno dei commentatori di questa risma.
Si tratta comunque di problemi immensi che richiedono ben più di poche righe e l’assemblaggio di migliaia di esperienze e di saperi, che domandano un ampio discorso pubblico purtroppo intralciato dai media e dai loro bottegai delle notizie. Ma torniamo alla scuola da cui siamo partiti: in una situazione nuova, di costante e rapida trasformazione l’istruzione intesa come addestramento al lavoro è il peggio che si possa immaginare perché dai banchi a un immaginario bancone, anche ammesso che ancora vi sia, tutto, ma proprio tutto potrebbe essere cambiato. Paradossalmente diventa vincente proprio la vecchia scuola con la sua aspirazione ad essere luogo di formazione culturale di base, che non crea conoscenze troppo definite, ma essenzialmente la capacità e l’abilità di acquisire nuovi saperi e magari, nei casi migliori anche la voglia di acquisirne. In questo modo le persone sarebbero più attrezzate a far fronte ai cambiamenti, magari a immaginarli e a lottare perché essi prendano una direzione e non un’altra.
Tutto questo è una montagna gigantesca che si staglia sul futuro di tutti, figuriamoci poi in questo Paese governato come peggio non si potrebbe, nel quale l’unica risposta al problema è stata la denatalità selvaggia. E che anzi arriva ad essere “moderno” così in ritardo che il moderno nel frattempo è andato in coma.
Già a meta anni 70 l’ILO (International Labour Organization, legata all’Onu), sosteneva che sarebbe stato possibile triplicare la produzione con la metà degli addetti, e non erano ancora state introdotte le tecnologie informatiche della 3° rivoluzione industriale (primi ’80)
oggi praticamente, con la rivoluzione 4.0, i componenti decidono il proprio assemblamento in base alle scorte di magazzino (just in time), ed alle commesse che arrivano in tempo reale da ogni parte del mondo. La produzione mondiale in effetti, grazie a questo uso dell’informatica, viene fatta da un enorme trust produttivo unico, unico non quanto ai rapporti di proprietà ma riguardo alla collaborazione in tempo reale di tutti gli apparati produttivi
Questa situazione sta oggi al solo iniziando, ma la prospettiva e’ indubbiamente questa, ed e facile capire che vengono progressivamente eliminati anche quei lavori di supervisione che per alcuni anni si pensava sarebbero cresciuti sostituendo quelli direttamente produttivi. Ma che vuoi supervisionare più quando le componenti decidono da sole come aggregarsi, ed in quanto componenti in grado di decidere ( grazie ad appositi micrichips), possono anche decidere come riparare i macchinari difettosi o usurati ?
Non è fantascienza, basta documentarsi seriamente, e non prendere per buone le cavolate dette dal presidente di Confindustria a Cernobio, per cui la rivoluzione 4,o sarebbe una svolta nella logistica, affermazione pretestuosa per chiedere finanziamenti allo stato senza dover poi alcunchè investire ( la “logistica” delle componenti che si autoassemblano spacciata per la “logistica” dei Tir e dei Treni Merci)
La produzione nel futuro richiederà sempre meno lavoro, questo lo dice anche Il Simplicissimus, che infatti vede giustamente la soluzione nella riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Ma con ciò si aprono due questioni:
Di per sè, un ritorno alle politiche keynesiane (per altro impossibile perchè è stato il loro fallimento ad aprire le porte al neoliberismo), non potrebbe essere assolutamente una soluzione. Infatti non servirebbe il portato implicito delle politiche keynesiane ed ovvero gli investimenti in tecnologia (la lombroso dice che i capitalisti”preferiscono” la finanza a tali investimenti). A che servirebbe mai la spesa keynesiana e gli investimenti tecnologici correlati, se ormai la tecnica può creare solo disoccupazione di massa ? Proprio a niente, anzi a peggiorare la situazione !
Come dice il Simplicissimus, occorrerebbe quanto meno una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Ma ciò, dentro il capitalismo, è assolutamente impossibile, e non e avvenuto neanche nell’epoca del capitalismo keynesiano tante volte decantato. Si è arrivati (formalmente) alle 8 ore perchè oltre questo limite la resa del lavoratore diminuisce, e questo si ammala negli anni. Una vera diseconomia per il Capitale
Giova ricordare quindi , in base ad una visione certamente di parte, ma che nei tempi di crisi come questi rivela un potere euristico impensabile per gli approcci “mainstream”, come propriamente funziona il capitalismo :
La tecnologia riduce sempre più la manodopera e gli operai, quindi riduce pure il tempo di lavoro impiegato a produrre uno stesso stock merci.
Ciò solo in un primo momento aiuta il Capitale, nel senso che così il paniere delle merci imprescindibili costa meno, e quindi anche i pochi operai che rimangono alle linee possono venire pagati di meno.
E’ per questa via che nel tempo, agli operai viene pagata una quota sempre minore delle 8 ore di lavoro che svolgono.
A tal modo, il capitale accresce le ore di lavoro prese a gratis e le merci relative appropriate. Quando vende tali merci appropriate a gratis il capitale ci fa il profitto, che quindi equivale allo sfruttamento degli operai, alle ore di lavoro a loro non pagate.
Non c’ è altro margine per il profitto, sovra-prezzi vari si erodono nella concorrenza.
Con meno ore di lavoro retribuite in busta paga, gli operai sopravvivono in quanto il paniere delle merci costa meno — la tecnica implica meno addetti e meno tempo per produrre le merci — ma in effetti è il capitale ad avvantaggiarsi per le maggiori ore di lavoro sottratte ai suoi operai e per le merci relative appropriate.
Ma una simile dinamica solo in un primo momento giova al capitale, in effetti la stessa tecnica che abbassa il tempo di lavoro nelle merci, e consente di retribuire meno chi lavora per il beneficio del profitto, oltre un dato limite storico diventa la morte del capitale : essa riduce talmente gli operai che le maggiori ore prese a gratis sui singoli, non remunerano nè compensano le ore di lavoro gratuite possibili con la base operaia prima molto più ampia,
E’ evidente che poco alla volta la tecnica riduce gli operai complessivi, anche se i pochi rimanenti lavorassero del tutto a gratis, egualmente non riuscirebbero a pareggiare le ore di lavoro gratuite fornite al capitale da una base operaia che prima era molto più estesa. A questo punto i profitti iniziano a diminuire rispetto al capitale investito, la famosa caduta tendenziale del saggio di profitto e della loro massa
A questo punto, l’investimento in tecnologia ed impianti diventa continuo e forsennato, perché attraverso di questo e l’espansione relativa, i capitalisti si contendono i pochi operai rimasti ovvero l’unica fonte di profitto per il Capitale. Gli investimenti sono cosi’ grandi, e gli operai cui rubare ore di lavoro gratuite sono cosi pochi, per cui nei limiti temporali del ciclo non arrivano profitti (ore di lavoro gratuite) che possano ammortizzare gli enormi investimenti tecnici iniziali. Per questa ragione, almeno dalla meta degli anni 80 il capitalismo è un morto che cammina e che in nessun modo può essere rianimato
Tornando alla questione dell’abbassamento dell’orario di lavoro, si tratta di osservare che se un certo monte-ore e suddiviso tra più operai, allora il capitalista dovrà pagare più sussistenze vitali (in ore di lavoro) e prendersi a gratis le ore di lavoro che residuano di esso monte-ore
Se invece lo stesso monte-ore insiste su un solo operaio, il capitalista dovrà pagare una sola sussistenza vitale e gli rimangono quindi maggiori ore di lavoro prese a gratis sul monte-ore totale
E chiaro che in una epoca come questa, dove le ore di lavoro prese a gratis (profitti) non sono sufficienti a ammortizzare gli investimenti propedeutici alla produzione, i capitalisti non potranno mai accettare di distribuire un dato monte-ore su più operai cui pagare più minimi vitali (in ore di lavoro davvero retribuite).
Dovranno sempre distribuire tale monte-ore su un un solo operaio quindi su una sola sussistenza vitale da pagare (in ore di lavoro), così di esso monte-ore resteranno più ore di lavoro da prendere a gratis come profitto
Sicché, per chi conosce il modo di funzionare del capitalismo rimane chiaro chiaro che se c’e una cosa che mai e poi mai il capitalismo potrà fare, questa e proprio la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Il piano quinquennale dell’Unione Sovietica (capitalismo di stato) scimmiottava l’allocazione delle risorse tipica del capitalismo, ma senza riuscirci e con disfunzioni fallimentari
Ma questa incapacità nella allocazione delle risorse oggi non sarebbe più un problema considerando cosa ti allocano le nuove tecnologie :
Oggi praticamente, con la rivoluzione 4.0, i componenti decidono il proprio assemblamento in base alle scorte di magazzino (just in time), ed alle commesse che arrivano in tempo reale da ogni parte del mondo. La produzione mondiale in effetti, grazie a questo uso dell’informatica, viene fatta da un enorme trust produttivo unico, unico non quanto ai rapporti di proprietà ma riguardo alla collaborazione in tempo reale di tutti gli apparati produttivi. Si tratta solo di socializzare i rapporti di proprietà che sono ancora privati ed impediscono l’abbassamento dell’orario di lavoro, che come diceva Mister Simplicissimus e l’unica prospettiva realistica per l’intera umanità. Strano che chi tanto intravede, poi tanto poco osa ( BCP-LK)
buone osservazioni Jorge.
Nei paesi seri, anche le forze liberali riconoscevano che il capitalismo guadagna incrementi di produttivita che debbono essere gestiti, altrimenti malamente si dislocano, a favore di chi detiene i mezzi di produzione.La gestione delle economie deve avere sempre qualcosa di sociale, non puo essere lasciata ai soli ceti capitalisti, a maggior ragione oggi che esistono queste tecnologie innovative che tanto e tanto possono determinare
“E che anzi arriva ad essere “moderno” così in ritardo che il moderno nel frattempo è andato in coma.”
Il tardivo “moderno” ( o pseudo tale…) in itaGlia suona come un profonda presa in giro, in un Paese che ne suo genoma ha influenze fasciste ( quindi anti nazionali…) , medioevali, perdenti e mafiose.