65c4e3a606a20e7c138b1c5ff6b3dc31Che un’epoca e i paradigmi che l’hanno accompagnata siano ormai alla fine non c’è dubbio e quasi ogni giorno possiamo vedere i colori un po’ volgari del suo crepuscolo anche attraverso  l’enorme confusione che regna sotto il cielo. Si è arrivati al punto che Bill Gates, riprendendo fantasie e illusioni anche europee, invoca un’ irpef sui robot che stanno man mano sostituendo il lavoro umano. Non solo una tassa che graverebbe su chi li produce, cosa abbastanza naturale per un americano, visto che la robotica viene in gran parte realizzata in Giappone, Cina e Germania e dunque contribuirebbe a sostentare i consumatori made in Usa disoccupati, ma proprio una tassa sul loro lavoro, esattamente come quella che pagherebbe un operaio:  “Oggi se un essere umano guadagna 50 mila dollari all’anno, lavorando in una fabbrica, deve pagare le imposte. Se un robot svolge gli stessi compiti, dovrebbe essere tassato allo stesso livello”. Le contraddizioni del sistema sono tali che il tentativo di mantenere gli assetti di potere senza toccare la sostanza del pensiero unico si manifesta  in maniera sempre più bizzarra di fronte alle contestazioni della realtà: dai soldi buttati dall’elicottero pur di non dover concedere nuovamente qualche diritto al lavoro e comprimere i profitti  a questa equazione fiscale fra macchine e uomini per la conservazione della pace sociale.

Certo quella di Bill Gates è una provocazione o forse semplicemente uno di quei discorsi salottieri fra ricchi dove non si corre mai il rischio di passare per cretini, lanciato come regalo al di fuori del banchetto di Epulone, ma è interessante per la sua straordinaria ambivalenza: da una parte prefigura un mondo orwelliano di dizione americana nel quale le dinamiche sociali e del lavoro vengano del tutto eradicate dalle macchine che continuerebbero a fare plus lavoro per il capitalista in carne e ossa, mentre come nuovi contribuenti di silicio ucciderebbero ogni dinamica politica, dall’altra invece potrebbe anche alludere a una sorta di marxismo hollywoodiano dove lo stato assume, attraverso il meccanismo fiscale, il controllo dei mezzi di produzione che in questo caso prendono sia  il carattere di capitale costante che variabile, ma senza lotta di classe. In ogni caso al di là di boutade, di studi paludati, ma privi di qualsiasi forma di pensiero laterale, di allarmi o di ottimismo da bancarella, tutti i discorsi tentano di affrontare il problema solo e esclusivamente dentro il paradigma neo liberista, cercando di esorcizzare disperatamente l’evidenza, ovvero che non si tratta di applicare ai robot criteri più o meno umani, persino fiscali, ma che urge un completo e radicale cambiamento di società.

Devo confessare di non essere mai stato particolarmente affascinato dai robot in forma umana, né mai coinvolto in quelle stravaganti metafisiche dell’era della tecnica che hanno costellato e spesso con esiti tragici il ‘900, semplicemente per il fatto che la techné come ars e come prassi è la natura stessa dell’uomo, che i robot sono fra noi sin dal paleolitico e addirittura ancor prima, fra gli antenati della specie : una selce opportunamente scheggiata è un robot che sostituisce unghie e zanne, un fuoco un azzardo di chimica ancestrale, un arco qualcosa che allunga all’inverosimile  un braccio e via dicendo per qualsiasi oggetto pensabile ancorché non reale. Ma non c’è dubbio che la straordinaria estensione dell’automazione contemporanea ormai affrancata da una diretta e costante guida umana, costituisce la definitiva crisi dell’idea di società affermatasi con la nascita dell’agricoltura e già colpita dalla rivoluzione industriale ovvero dall’affermarsi di macchine indipendenti dalla forza biologica.

Non si può affrontare il problema con l’ottimismo sciocco per non dire perverso di chi ritiene che i posti di lavoro mancanti saranno sostituiti tout court da altre attività così che tutto più o meno rimanga come prima, ma ritenendo che lo sfruttamento debba essere portato sempre all’estremo limite per via della competizione e della produttività, senza nemmeno ipotizzare una diminuzione degli orari di lavoro. O col pessimismo di chi vede allargarsi enormi masse di disoccupati inerti e semplicemente vittime che poi, detto fra noi, come potrebbero comprare ciò che i robot producono? In una parola il problema non è affrontabile all’interno dei topoi del capitalismo.

Ciò che davvero si dovrebbe esplorare è come cambieranno i rapporti fra le classi sociali, il nuovo aspetto di tali classi, quale sarà la dialettica fra le varie parti del mondo, come sarà in sostanza la vita. E qualcosa che va molto al di là dell’economia almeno nei suoi tratti acquisiti di scienza borghese e del capitale, ed è qualcosa che non succederà semplicemente, ma che bisogna costruire: dipenderà da noi oggi se avremo una società di grandi fratelli o una straordinaria liberazione dai compiti ripetitivi e dalla struttura sociale costruita su di essi e ossessionata dalla proprietà.