Anna Lombroso per il Simplicissimus

Macché Patria, macché Costituzione, macché Famiglia, macché Mamma. C’è un valore che gli italiani e non solo sono disposti a difendere a rischio della vita, del buonsenso  e della verità. È la squadra del cuore, sia la Maggica  o la Vecchia Signora, sia la Dea o la Zena, sia il Toro o il Diavolo. Il sostegno totale e la cieca fedeltà si estendono anche a viziatissimi e qualche volta viziosissimi assi del pallone, pibe di oro in odor  di evasione, campioni truffaldini di partite svendute, inveterati consumatori di paradisi artificiali e veline. E in qualche caso anche a patron e proprietari, cui, in nome della leale dedizione al team, si perdonano come peccati veniali  illeciti, aggiramento poco sportivo di regole, abusi e reati fiscali e perfino una certa inclinazione al golpismo.

Ma il furore contro il fatto colpevole di avere per primo informato sulle disinvolte e spericolate frequentazioni di delfini di casa Agnelli con amicizie  malavitose e sulla copertura data ai bagarini ultras legati alla criminalità, espresso con toni adirati sui social oltrepassa la collera per l’indebito attacco alla reputazione della squadra. Garantisti di ferro scendono in campo contro l’ex prefetto di Roma Pecoraro,  in qualità di procuratore della Federcalcio,   di aver accusato il presidente bianconero di aver incontrato esponenti della criminalità organizzata scendendo a patti con loro per mantenere la quiete allo stadio e di aver commesso illeciti con bagarini e ambienti criminali, attribuendogli perfino  rapporti personali con esponenti della malavita organizzata. E mettono in dubbio l’azione investigativa della Direzione Antimafia che ha scoperchiato il pentolone velenoso dei ricatti, delle estorsioni, del business illegale dei biglietti e dell’acquiescenza non disinteressata del giovane Andrea Agnelli, che motiva le sue relazioni pericolose con l’opportunità di contribuire al mantenimento dell’ordine pubblico, sia pure con azzardate autorizzazioni a usare festosi petardi.

Il fatto è che il silenzio della stampa sullo scandalo e perfino sulle ammissioni, rotto da qualche  rara eccezione, non dipende solo dalla ancora viva potenza intimidatoria e commerciale dell’impero torinese sia pure delocalizzato, nemmeno tanto, come ha insinuato qualcuno su Calciomercato.com, dalla preoccupazione, vera, di perdere inserzioni e protezioni, ma anche dalla natura di intoccabili e inviolabili dell’unica autentica dinastia reale italiana, sia pure ormai ridotta a esangue quanto avido azionariato, oggetto di adulazione, ammirazione, invidia e emulazione perfino di vezzi e vizi da polsino della camicia e erre moscia inutilmente imitati,  e che si sono allungate come ombre protettive su rampolli di sangue e di elezione, alle cui performance fallimentari si guarda con deliziata indulgenza.

E d’altra parte proprio la storia del vincolo tra  industria e calcio, di finanziamenti profusi per nutrire passione e consenso,  della combinazione tra bastone e carota, sfruttamento e circenses, della tolleranza per illeciti e truffe blasonate, a proposito delle quali in tempi lontani ma attuali, il promo decennio del secolo breve, il ministro di Grazia e Giustizia Vittorio Emanuele Orlando  dichiarò: “Un’azione penale nei confronti di Agnelli (Giovanni) avrebbe conseguenze negative sulla nascente industria nazionale…”, conserva dei tratti di modernità indiscussa, a celebrazione dell’audacia imprenditoriale, ancorché spregiudicata fino all’illegalità, della libera iniziativa legittimata a aggirare regole e leggi per il benessere comune, del “mecenatismo” sia pure inteso a acquisire proprietà, sviluppare influenza, incrementare benefit fiscali.

Vignetta di Altan
Vignetta di Altan

Qualcuno fa simbolicamente risalire la fine del “lavoro” a quel giorno del 2003 in cui una fila lenta, curva e mesta è salita pian piano per entrare nella camera ardente e rendere omaggio ancora una volta sottomesso, non all’industriale, ma al patriarca, anzi al monarca indiscusso di Torino. A quella liturgia ancien règime nel quale innumerevoli anonimi entrarono nell’inquadratura mediatica per un momento proprio come ai funerali di Lady Diana, quando la morte offre attimi di gloria narcisistica ai dolenti convenuti.

La fine del lavoro era già cominciata, altro che, e semmai quello era il sigillo allegorico sulla conclusione dell’epopea industriale della Torino – per traslato – dell’Italia produttiva, con gli stabilimenti giù allora in disarmo, le aree decotte, le cure dimagranti imposte a Mirafiori, il Lingotto dismesso pronto a ospitare l’evento che sancirà il seppellimento di un altro morto celebre, il partito comunista, la sua tradizione e il suo mandato. E niente investimenti in favore di profitti opachi, niente tecnologia in favore della tumescenza tossica di fondi e strumenti finanziari pensati per possedere sempre di più e condizionare e ricattare il futuro dei lavoratori, costretti a essere a un tempo sfruttati e investitori.

 

Non credo che sui lavoratori soli, intimoriti e abbandonati di Pomigliano, Melfi, Mirafiori  espropriati di garanzie, sicurezza, diritti slavo quello di faticare e esserne pure contenti,  pesi  la fine di un  mito sportivo. Semmai può pesare la vergogna di aver subito, di averci creduto, di aver accreditato la superiorità di stirpi di arroganti e tracotanti padronati. Ma quella è una colpa collettiva per la quale non ci deve essere indulgenza e la cui macchia può essere cancellata solo col riscatto, se sapremo rifarlo.