Anna Lombroso per il Simplicissimus

Aveva 22 anni ed era originario del Gambia l’immigrato che domenica scorsa a Venezia, sotto gli occhi di centinaia di persone, ha scelto di annegarsi gettandosi nel Canal Grande.

Dopo, si è saputo che era sopravvissuto una volta all’acqua, durante la traversata che lo aveva portato sulle coste siciliane. Dopo, si è appreso che era passato per Milano, dove aveva conquistato un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Dopo, solo dopo, i sommozzatori lo hanno tirato a riva, Dopo  che intorno la gente guardandolo affondare gridava “Africa”, “Quello è scemo, el vol morir”, e rivolti ai marineri del battello che passava: “Buttè i salvagenti”. Gliel’hanno lanciate le ciambellone bianche e rosse dal vaporetto, ma lui non le ha afferrate e nessuno si è tuffato. Forse lui voleva morire, ma è sicuro che nessuno ha voluto salvarlo.

Chissà cosa è successo a questo paese nel quale i figli di che è emigrato e ha patito esilio, pane amaro, emarginazione, rifiuto, ritorce quel dolore solo raccontato contro chi arriva qui spinto dalla stessa fame. Nel quale gente che è sfollata quando il fiume ha confuso acqua e terra e tutto era una tremenda palude che inghiottiva case, persone, bestie e è stata accolta con amicizia in altri posti altrettanto poveri, scende in piazza contro chi vive la stessa perdita, donne e bambini compresi. Nel quale chi ha visto morire concittadini sotto le macerie di posti tirati su in deroga a regole e leggi, con materiali scadenti per appagare l’avidità di criminali in doppiopetto, vorrebbe bombardare i barconi e muovere le ruspe contro musi neri e gialli e rom preventivamente colpevoli di   portare illegalità rubacchiando. Nel quale vantiamo record di violenze domestiche, le lavoratrici soggette a discriminazioni sul lavoro, ne vengono espulse per sostituire servizi e welfare cancellati, le donne devono difendere perfino il più triste e indesiderabile dei diritti, ma condanniamo i costumi di immigrati, che sarebbero, quelli sì,  inconciliabili con parità, civiltà e democrazia.

Chissà cosa è successo a una città che è stata grande anche grazie a quelli che arrivavano, che via via aveva scelto il doux commerce per affermare la  sua potenza, più di Antwerpen o Amsterdam, quella città mondo, come l’ha definita Braudel, perché nel suo tessuto sociale ed urbano si rappresentava in tutta la sua articolazione l’intero mondo conosciuto, come un  grande portale aperto su spazi economici, sociali e culturali solo parzialmente visitati e noti. E che su questa apertura ha  costruito il suo prestigio e potere quando al suo interno strade e quartieri erano abitati  da  altre genti che vi svolgevano le proprie  attività e vi si rappresentavano attraverso  edifici di culto od attraverso le sedi  di chi svolgeva particolari  mestieri e li insegnava grazie a un meticciato auspicato e praticato, che aveva persuaso cittadini e “foresti”  della bellezza del progetto di una sovranità solidale: tutti laboriosamente e lealmente impegnati nella costruzione di uno Stato forte e autorevole, accogliente e benevolo.

Quella città che seppe essere la più libera delle molte città libere italiane, come recita uno dei suoi cronisti medievali: non aveva altre mura che la laguna, non guardie di palazzo tranne gli operai dell’Arsenale e nessuna piazza d’armi per le esercitazioni e le parate militari a eccezione del mare.  Era  un crogiolo come molti porti, ma la combinazione di baratti e  commerci, lo scambio di monete, la babele di lingue, la professione tollerata di molte credenze e religioni, là seppe diventare però un amalgama a far da sostegno morale e culturale alla potenza della città: un collante che innervava e intrideva la tradizione, la memoria, la vita intellettuale, la creatività, l’architettura, la pittura, la musica, ma  anche la moda, la cucina, le abitudini quotidiane. Andar per mare, così come l’accoglienza, la curiosità di esplorare, così come l’ospitalità, ne hanno fatto un laboratorio vivo di integrazione, all’esterno come all’interno, un caso singolare di tolleranza e socializzazione, fino alla fusione, al riconoscimento e all’appartenenza a unanima collettiva della città di turchi, armeni, ebrei tedeschi, levantini, ponentini, arrivati da ogni parte e intenti,  come ebbe a dire Le Corbusier,  a compiere insieme quei  “gesti gioiosi e fecondi che rappresentano, in tanti modi, la quota d’amore dedicata a ogni cosa”. E che  si dispiegava coi colori delle stoffe sciorinate sui banchi delle botteghe e delle spezie nei grandi sacchi sul Molo, negli odori che emanavano dalle osterie e dalle cucine, in quella mescolanza di piccante e dolce, di amaro e agro che si ritrova nella combinazione di uvette di Corinto e pepe e aceto dei piatti tradizionali, il fegato e quel saòr così provvidenziale per conservare che, si racconta, venne impiegato per mantenere intatte le spoglie  di un amatissimo prelato di Torcello, confinate nell’isola per via di una burrasca.

Il fatto è che sappiamo bene cosa è successo a questo Paese e a quella città,   espropriata e spoliata, invasa da barbari oltraggiosi e villani, che nemmeno sbarcano da barconi per irrispettosi forzati delle crociere a più piani, scacciati dalle case per far posto a una accoglienza per élite irriguardose, ignoranti e volgari.

Il fatto è che sappiamo  di chi è la colpa di aver estratto dal profondo istinti dei quali un tempo ci saremmo vergognati, sventolando le bandiere del sospetto, della paura, dell’invidia, del rancore, trasformando i diritti in elargizioni, piegando le ragioni e i bisogni agli imperativi del profitto e del mercato,  imponendo la mistica della modernità per annullare con la memoria anche il ricordo della dignità di popolo.