rotj-endGuerre Stellari. Forse, anzi certamente ci sono cose più importanti cui dedicare spazio, analizzare per esempio le opere e i giorni di Giovanni Pitruzzella, capo dell’antitrust che ha aperto la campagna contro la post verità del web. Un personaggio salito dall’anonimato muffoso e risibile del montismo alla lucrosa poltrona pur avendo al suo attivo un’accusa di corruzione in atti giudiziari per un lodo arbitrale sospetto: in poche parole una post verità vivente e certamente una persona affidabilissima nel decretare la verità. Eppure Guerre Stellari riesumato alla cronaca per la morte improvvisa e inaspettata della scialba e incolore colore principessa Leila Organa, alias Carrie Fischer, figlia d’arte nata dal matrimonio di Debbie Reynolds e del cantante Eddie Fisher, è a suo modo un punto di snodo verso ciò che stiamo vivendo: fu uno dei sintomi dell’allora imminente esplosione del neoliberismo, il punto di avvio dell’iper concentrazione della produzione di intrattenimento ( e successivamente informazione), la fine della fantascienza come narrazione e la sua trasformazione in genere per l’infanzia compresa quella non anagrafica, diede inizio alla decadenza del cinema trascinandolo nella banalità e del film come opera singola per lasciare via via spazio alle saghe cinematografiche e poi alle serie televisive con la loro forza di trascinamento nell’imporre modelli, miti, comportamenti, per confondere i  confini della realtà e con loro capacità economica di fondare dei trust su un’infinità di franchising. Insomma tutto ciò che generalmente viene indicato come sindrome Lucas – Spielberg.

Gli spropositati encomi –  epitaffio a Carrie Fisher, la sua mitizzazione post mortem  non sono infatti dedicati a una carriera che di attrice che semplicemente non esiste (vedi nota), ma sono rivolti a quel mondo parallelo di fans ossessivi e di affari legati ai gadget che ormai tengono in piedi la baracca. Ma in fondo sono anche un modo per celebrare ancora una volta,  gli ultimi quarant’anni di cinema americano che progressivamente si è orientato verso il conformismo narrativo in tutti i suoi aspetti, dai cliché insopportabili delle sceneggiature che fanno indovinare tutta la trama dopo i primi due minuti, alla povertà linguistica dei copioni rivolti a un pubblico globalizzato, spesso riscattati proprio dal doppiaggio, al linguaggio della macchina presa, un insieme la cui noia può essere superata solo tramite un continuo premere sull’acceleratore degli effetti speciali. Con Gerre Stellari e il precedente Squalo l’intero sistema cinema di Hollywood è cambiato puntando tutto sui budget stratosferici  e sull’enfasi delle suggestioni più elementari, qualcosa che insieme ai nuovi strumenti di fruizione ha portato alla logica della saga come modo per creare un continuo flusso di denaro. Per capire bene la differenza basta fare caso allo spazio che hanno preso gli interessi economici (produzione, finanziamento, distribuzione e via dicendo) spodestando il cast e la regia: ancora trent’anni fa comparivano per qualche secondo e adesso spesso sono addirittura minuti.

Certamente Lucas e Spielberg non ne hanno una colpa diretta, ma sta di fatto che la sindrome a cui hanno dato avvio è contemporanea e sinergica a quella della progressiva spoliticizzazione dei ceti medi e di quelli afferenti, i quali sono sempre più invischiati e coinvolti nelle favole e nell’accettazione del business a qualunque costo, però anche in un mondo narrativo pieno di eventi e vicende, ma non di vera evoluzione: tutto è sempre uguale a se stesso. Quando uscì in Italia, Guerre Stellari fu interpretato, come un prodotto di evasione, a volte rudimentale, “adatto a spettatori beati e sottomessi” e del resto Lucas stesso non pretendeva molto di più se non di aver fatto un buon prodotto dagli incassi stratosferici: “un compendio di tutti i film e i libri d’avventure che ho visto e letto. La trama è elementare, i buoni contro i cattivi, ma è condita con tutti gli elementi fantastici che attraverso gli anni si erano appiccicati alla mia testa”. Non c’è dubbio che molta critica europea e quella italiana in particolare, partiva ancora da concezioni elitarie che non prendevano in considerazione la forza bruta della mitologia e che ancora erano invischiate in arcadici discorsi di genere letterario. E tuttavia è interessante notare come la fiaba per adulti, il semplice spettacolo fine a stesso e senza rimandi ad altro fosse considerato, sbagliando, quasi come una colpevole distrazione, mentre oggi le appendici sempre più stanche della saga si reggono proprio sull’arroganza del diritto – dovere alla distrazione, al sogno individuale, al non pensiero, al puro adagiarsi sulle immagini, ancorché già risapute di un eterno presente stellare. Storie all’interno della fine della storia.

Guerre stellari è dunque un segno importante, una boa in quell’oceano e forse non è del tutto casuale che l’uscita del film in Italia segua di poche settimane lo scioglimento del Movimento studentesco del 77, dopo i falliti stati generali di Bologna e l’inizio del reflusso. Da allora via via l’evasione è divenuta un obbligo, il disimpegno un dovere, una moda, un gusto, persino un’ideologia, la realtà un’interpretazione mentre la verità si avvia a trasformarsi in ministero.  La buona notizia è che la forza, a parte quella bruta non è più con loro.

Nota Carrie Fisher, più che come attrice, peraltro episodica, era più nota e certamente più apprezzata come scrittrice di romanzi ironici sul mondo hollywoodiano e su stessa oltre che come sceneggiatrice e correttrice di sceneggiature altrui.