profittoNon era certo un mistero che i livelli di profitto fossero l’asse centrale attorno al quale giravano tutte le politiche del lavoro, tanto che spesso le chiusure di stabilimenti e di attività non erano giustificate da vere crisi o da perdite, ma semplicemente da una diminuzione di profitti o dal fatto che delocalizzando si potevano avere guadagni maggiori. Del resto tutto questo è nello spirito fondativo del capitalismo mentre la sua realizzazione integrale è stato il segno distintivo del neoliberismo e della globalizzazione: la violenta, eppure continua, subdola battaglia contro lo stato, contro la democrazia vera e non televisiva, contro le tutele che essa rappresentava non era che un modo per riaffermare la centralità del profitto privato e la sua dittatura.

Quindi non c’è affatto da stupirsi se nell’ultimo decennio il massimo sforzo dei ceti politici europei sia stato quello di trasformare questa realtà de facto in realtà anche giuridica e dunque fondativa dei rapporti sociali, agendo però ai fianchi, per non creare un pericoloso allarme. In Italia la soppressione dell’articolo 18 e il job act, oltre òe regole europee sono stati i pronubi di questo cambiamento tanto che la Corte di Cassazione ha stabilito con una sentenza depositata una ventina di giorni fa che il licenziamento può essere perfettamente giustificato anche solo in vista di “un incremento della redditività”. La sentenza che si rifà all’articolo 41 della Costituzione e alle direttive comunitarie recita: “Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo  l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”. Chiaramente si tratta di una sentenza politica e diciamolo pure non delle più brillanti perché introducendo il criterio del profitto come autonomo accanto a quelli di crisi, di ristrutturazione e di ammodernamento, permette potenzialmente qualsiasi cosa e legalizza ogni ricatto.

Come possa tutto questo derivare dal fatto che la Costituzione all’articolo 41, nella sua prima riga dica che “l’iniziativa economica privata è libera” rimane per me un mistero. Tanto più che le successive righe dell’articolo indicano che tale attività economica: “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Da quando il profitto è diventato tout court un’utilità sociale, da quando fa aggio sulla dignità del lavoro e delle persone, da quando i licenziamenti sono divenuti un fine sociale? E soprattutto che fine ha fatto l’articolo 1 della Costituzione che conferisce al lavoro una cengtralità nell’ordinamento?

Ora è fin troppo chiaro che la Corte di Cassazione nel suo complesso  è un reperto storico del tutto anacronistico, voluto dallo statuto Albertino nel 1848 ad imitazione della Francia e sensato nell’ordinamento sabaudo e post unitario, ma poco  in quello repubblicano nel quale  si trova spesso a surrogare impropriamente la Corte costituzionale, a sostituirsi al potere legislativo oltre ad essere di fatto il refugium peccatorum leguleio più che legale della classe dirigente e del potere in generale. Ma al di là delle ambiguità di funzione nell’ordinamento repubblicano, è chiaro che esprime sotto forma di sentenza di legittimità lo spirito della legislazione di un decennio a questa parte, culminata con il renziano job act. Ecco perché bisognerebbe licenziare in tronco un ceto politico e  le sue afferenze di qualunque tipo: ne ricaveremmo tutti un legittimo profitto anche in termini di cassa e dunque con la benedizione della supra corte, se è vero che – ma è solo un esempio fra i tanti – che i crediti inesigibili che hanno mandato a carte all’aria Mps non vengono certo dai poveracci, ma per 600 milioni da De Benedetti (prima tessera Pd ), per 200 milioni da Don Verzè e dal suo San Raffaele, per 1, 6 miliardi dalla Mantovani. Che insomma il 70% delle sofferenze deriva da clienti finanziati con più di mezzo milione e il 32% da chi  ha ricevuto oltre 3 milioni.

Cassarli è l’unico modo di uscirne.