Anna Lombroso per il Simplicissimus
Mi ero sbagliata. Mi ero sbagliata nell’esprimere disappunto per l’iniziativa della terza carica dello Stato di istituire un tribunale mediatico personale per denunciare le violenze verbali della quali è stata oggetto in quando donna e donna pubblica (qui: https://ilsimplicissimus2.com/2016/11/27/laugusta-giustiziera/) , mi ero sbagliata perché non si trattava di uso per non dire abuso di uno status e di un incarico istituzionale per farsi giustizia. Era invece lungimiranza la sua, anticipatrice di uno degli obiettivi del cataclisma riformistico del governo che auspicano si abbatta sull’edificio democratico e, non proprio di sguincio, sull’amministrazione della giustizia.
E d’altro canto appartiene alla loro formazione culturale preferire alle aule sorde e grigie giudiziarie gli studi televisivi di Forum o, meglio ancora, la loro giustizia sommaria su Facebook o su Twitter dove vengono sbrigativamente liquidate le pendenze e le colorite espressioni di De Luca e esaltati i peccati anche veniali degli altri e dove ogni esternazione dovrebbe essere condannata per falsa testimonianza e apologia di reato.
E infatti a loro i tribunali e le corti proprio non vanno giù come al loro padre putativo che aveva fatto del suo giustizialismo ad personam una battaglia personale e politica. E non solo per imporre le sue leggi a difesa di interessi personali, dell’imperio di deroghe e licenze, per il salvataggio di istituti difensivi di rendite e malaffare da tutelare con scorciatoie, interminabili prescrizioni e grazie all’impoverimento progressivo della rete dei controlli e della vigilanza. Ma anche per dare sostegno culturale a quel fermento velenoso che anima l’imprenditorialità italiana, spregiudicata quanto parassitaria e che imputa scarso spirito di iniziativa, dismissione di programmi e di investimenti per innovazione, tecnologie e sicurezza in favore di più emozionanti scommesse finanziarie, quindi di crescita, agli ostacoli frapposti da lacci e laccioli, regole inapplicabili, farraginose e punitive.
Non ha sorpreso nessuno la reazione imbestialita dello statista di Rignano alla bocciatura da parte della Consulta della riforma Madia della pubblica amministrazione, all’indomani dell’approvazione in Consiglio dei ministri di un ulteriore pacchetto di decreti attuativi, viziati già all’origine dall’ennesimo contenzioso tra Stato e Regioni sul Titolo V della Costituzione, sulla cui modifica ci pronunceremo nel referendum del 4 dicembre. «La Consulta – ha inveito sdegnato ha dichiarato parzialmente illegittima la norma sui dirigenti perché non abbiamo coinvolto le Regioni. È un Paese in cui siamo bloccati. E poi mi dicono che non devo cambiare il Titolo V. Siamo circondati da una burocrazia opprimente».
La “vertenza” in verità non è tra autonomie e Stato, macché, è tra poteri locali e un esecutivo sempre più protervamente intento a rafforzarsi fino alla totale occupazione del processo decisionale. Infatti alcune regioni avevano deciso di impugnare nell’ottobre del 2015 la legge 124 davanti alla Corte costituzionale, accusandola di non rispettare il Titolo V che richiede su una serie di materie la legislazione concorrente tra Stato e Regioni, prevedendo che sui decreti attuativi del governo queste diano solo un parere non vincolante, lasciando l’ultima parola al governo. E la Corte ha accolto il ricorso dichiarando l’incostituzionalità laddove la 124 prevede appunto che i decreti attuativi siano adottati dal governo sulla base di un «semplice parere, non idoneo a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali», anziché un «intesa» vera e propria.
Le materie oggetto della sentenza sono quattro: 1) il «lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni», e quindi il decreto sui licenziamenti (i furbetti del cartellino) entrato in vigore a luglio; 2) le società partecipate, il cui decreto è anche questo già in vigore; 3) la riforma della dirigenza; 4) i servizi pubblici locali. Vedi caso si tratta di temi tra quelli che coinvolgono più da vicino i cittadini, riguardando servizi essenziali e la loro gestione che deve essere informata di criteri e requisiti che tutelino l’interesse generale e “pubblico”.
Ma non solo la Corte dei vecchi parrucconi dispiace a questo dinamico ceto dirigente nazionale e pure a quello locale, talmente vicino all’ombelico del Paese collocato a Palazzo Chigi, da volersi generosamente esimere da ogni pretesa di legittimità, rappresentanza di bisogni e istanze territoriali.
Così il delfino del sindaco d’Italia in attesa di promozione nazionale dal laboratorio golpista del Giglio, è insorto contro il Tar, colpevole di ostacolare quel trailer della riforma rappresentato dall’aeroporto di Firenze. Il Tribunale amministrativo aveva avuto infatti l’insolenza di bocciare il progetto di scalo intercontinentale caro a Renzi&Carrai, messo a capo della società aeroportuale Toscana. Ma niente paura, rassicura il pimpante compagno di merende del vero mostro di Firenze il viceministro Nencini : «Ho sentito il ministro Galletti, la sentenza del Tar non incide sul procedimento di valutazione di impatto ambientale in corso al ministero dell’Ambiente». E poi il presidente Rossi: «Ci appelleremo convinti delle nostre buone ragioni, la sentenza è confusa».
Ma il più sfrontato è stato proprio l’ineffabile Nardella, che si autonomina leader del fronte NO-Tar invocando una testualmente una «moratoria sui ricorsi al Tar» e il loro «congelamento». Insistendo senza vergogna: «Se la politica delega al Tar le decisioni dei cittadini, è finita», mostrando tutta l’insofferenza del potere politico nei confronti della magistratura, reclamando esplicitamente che nessuno abbia il potere di opporsi non solo alle scelte oligarchiche, ma nemmeno alle violazioni delle leggi e delle procedure.
Attenti, questi sono i “prossimamente” dell’horror che ci aspetta se vince il Si. E anche della battaglia quotidiana che dobbiamo essere pronti a affrontare quando invece vinceremo e denunceranno il popolo e il suo NO al loro tribunale speciale. E’ che per loro ci vuole proprio quello di Norimberga.
[Le materie oggetto della sentenza sono quattro: 1) il «lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni», e quindi il decreto sui licenziamenti (i furbetti del cartellino) entrato in vigore a luglio; 2) le società partecipate, il cui decreto è anche questo già in vigore; 3) la riforma della dirigenza; 4) i servizi pubblici locali. Vedi caso si tratta di temi tra quelli che coinvolgono più da vicino i cittadini, riguardando servizi essenziali e la loro gestione che deve essere informata di criteri e requisiti che tutelino l’interesse generale e “pubblico”.
Ma non solo la Corte dei vecchi parrucconi dispiace a questo dinamico ceto dirigente nazionale e pure a quello locale, talmente vicino all’ombelico del Paese collocato a Palazzo Chigi, da volersi generosamente esimere da ogni pretesa di legittimità, rappresentanza di bisogni e istanze territoriali.
Così il delfino del sindaco d’Italia in attesa di promozione nazionale dal laboratorio golpista del Giglio, è insorto contro il Tar, colpevole di ostacolare quel trailer della riforma rappresentato dall’aeroporto di Firenze. Il Tribunale amministrativo aveva avuto infatti l’insolenza di bocciare il progetto di scalo intercontinentale caro a Renzi&Carrai, messo a capo della società aeroportuale Toscana. Ma niente paura, rassicura il pimpante compagno di merende del vero mostro di Firenze il viceministro Nencini : «Ho sentito il ministro Galletti, la sentenza del Tar non incide sul procedimento di valutazione di impatto ambientale in corso al ministero dell’Ambiente». E poi il presidente Rossi: «Ci appelleremo convinti delle nostre buone ragioni, la sentenza è confusa».
Ma il più sfrontato è stato proprio l’ineffabile Nardella, che si autonomina leader del fronte NO-Tar invocando una testualmente una «moratoria sui ricorsi al Tar» e il loro «congelamento». Insistendo senza vergogna: «Se la politica delega al Tar le decisioni dei cittadini, è finita», mostrando tutta l’insofferenza del potere politico nei confronti della magistratura, reclamando esplicitamente che nessuno abbia il potere di opporsi non solo alle scelte oligarchiche, ma nemmeno alle violazioni delle leggi e delle procedure.]
« L’anarchia è una forma di governo o di costituzione nella quale la coscienza pubblica e privata, formata dallo sviluppo della scienza e del diritto, basta da sola a mantenere l’ordine e a garantire tutte le libertà. »
(Pierre-Joseph Proudhon)
“La più alta perfezione della società si trova nell’unione dell’ordine e dell’anarchia.”
Pierre-Joseph Proudhon
“Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d’obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni.”
Fabrizio De Andrè
in maniera estremamente semplicistica, possiamo intanto dire che aver preferito a una economia di produzione una fondata sullo “sviluppo” finanziario che non richiede investimenti in ricerca tecnologia innovazione e sicurezza e che soddisfa gli appetiti degli azionariati spiega già qualcosa
Gli investimenti in ricerca tecnologia innovazione e sicurezza, sono appunto investimenti.
Se essi oggi risultassero profittevoli più di quanto sia profittevole l’investimento finanziario, allora i capitalisti preferirebbero codesti investimenti in ricerca tecnologia innovazione e sicurezza.
Gli investimenti produttivi fino a qualche decennio fa erano profittevoli più di quelli finanziari, per questo i capitalisti prediligevano la produzione.
Oggi la situazione si è invertita, ovvero gli investimenti finanziari danno un saggio di profitto maggiore e per questo i capitalisti prediligono la finanza
Un capitalista, oggi come ieri, bada solo a massimizzare il profitto. Non può fare altrimenti, se non accedesse progressivamente alla finanza che dà profitti più alti, sarebbe fatto fuori dal concorrente che vi accede per tempo, fatto fuori anche rispetto alla produzione tradizionale. Ma e chiaro che così la finanza acquista uno spazio sempre maggiore.
Da questo punto di vista chiedere a chi deve valorizzare il proprio capitale (per gli azionisti o per se stesso non cambia), chiedere a costoro di preferire la produzione reale, anche se meno remunerativa, è mero moralismo.
Oggi, il capitalismo non può funzionare diversamente da come funziona, ed i capitalisti non possono essere meno spregevoli di come sono diventati ( certo che Adriano Olivetti era un’altra cosa ). Ergo, bisogna superare il capitalismo.
La prospettiva storica, sembra a me, non va testata sulle deficienze dei furbetti del quartierino, o sui limiti familistici e / o relazionali di un particolare capitalismo italiano (per quanto da denunziare, come lei fa giustamente,).
La caduta,oggi non più non recuperabile, del saggio di profitto, é attestata dalle stesse statistiche dei maggiori stati capitalisti
La ragione di fondo, per chi voglia approfondire certi processi, è appunto che oggi gli investimenti per la ricerca e per gli impianti sono cosi enormi ed in avanzamento veloce, da non poter essere valorizzati ed in certi casi nemmeno recuperati. Prima che tale recupero o valorizzazione avvenga, già è necessario spendere nuovamente per aggiornare tecnologie ed impianti, pena rimanere fuori mercato. Ma è chiaro che in queste condizioni i profitti sono fortemente decrescenti se non impossibili
quel fermento velenoso che anima l’imprenditorialità italiana, spregiudicata quanto parassitaria e che imputa scarso spirito di iniziativa, dismissione di programmi e di investimenti per innovazione, tecnologie e sicurezza in favore di più emozionanti scommesse finanziarie, quindi di crescita, agli ostacoli frapposti da lacci e laccioli, regole inapplicabili, farraginose e punitive.
In effetti, lei ( Lombroso) non dà una spiegazione di questo atteggiamento della imprenditorialità italiana (non era nel target del suo post).
Troppo spesso però, circola riguardo a queste faccende un atteggiamento moralistico, per non dire complottistico, quale spiegazione della dinamica in oggetto
Ora, è certo condivisibile la critica a chi vede nei controlli, e nelle tutele dei soggetti deboli ,un ostacolo alla crescita produttiva.
Nondimeno, se investire nella produzione reale e non nella finanza garantisse profitti maggiori, allora gli imprenditori suddetti sicuramente si volgerebbero verso produzione reale.
O si può credere che siano autolesionisti e scelgano attività meno remunerative per il solo fatto che queste siano attività di tipo finanziario?
Evidentemente la finanza garantisce profitti maggiori che la produzione reale, e questo è vero in tutto il mondo, per quanto possano essere micragnosi gli imprenditori italiani.
C’è stato un tempo in cui le attività produttive garantivano profitti e velocità di crescita tali, che i più valenti imprenditori preferivano la produzione reale alla finanza.
Con la metà degli anni ottanta il profitto medio nelle attivita produttive reali era divenuto così basso che tutti i grandi trusts produttivi hanno iniziato a sviluppare attività e divisioni finanziarie. Sempre più tali trusts di grandi dimensioni con le loro divisioni finanziarie e le banche hanno cominciato a parteciparsi reciprocamente
Dopo alcuni anni, (metà anni 90) tale ambito finanziario ha cominciato a richiedere leggi che favorissero l’espansione ulteriore della finanza, ed ha cominciato a voler entrare nel settore dei servizi prima di pertinenza strettamente pubblica ( acqua, trasporti etc)
Se le attività produttive potessero garantire oggi profitti paragonabili a quelli che procuravano negli anni 50 o 60, allora anche George Soros o Warren Buffett dismetterebbero le loro arrivitòà finanziarie e passerebbero alla produzione reale.
I cambiamenti nellaq morfologia del capitalismo avvengono in base all’andamento del saggio di profitto, questa cosa la ha spiegata per primo Adamo Smith ( la chiamano allocazione ideale delle risorse)
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Evidentemente, da qualche decennio il capitalismo ha cessato di essere qualcosa di progressivo e si addentra nella sua fase senescente. Per motivi suoi intrinseci .