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Hasta la victoria siempre

cattura6Non mi perderò in analisi troppo complesse e in chiacchiere troppo futili, ma per capire il significato di Castro e della rivoluzione cubana, basta leggere i coccodrilli prodotti dalle pagine dei grandi giornali illuminati e incappucciati di questo Paese, che di fronte ad eventi complessi non sanno fare altro che ripetere le stesse melensaggini di sempre, ma questa volta ritagliate con gli strumenti assolutamente primitivi che offre la contemporaneità. Così il ruolo coloniale degli Usa sparisce chissà dove, Castro diventa un dittatore che a  tutti i costi vuole trasformare la rivoluzione in marxista leninista facendo fuori chi si oppone a questo disegno, si lega a Mosca e si trasforma – oh cielo – in un comunista contro il parere di Che Guevara che infatti va  a fare la rivoluzione altrove. E il più lungo embargo, anzi blocco della storia viene a mala pena citato en passant. Il fatto che Cuba sia il più avanzato paese dell’america latina in molti campi, vedi la medicina, tanto che le multinazionali Usa del farmaco stanno sbavando per acquisire i brevetti dopo le aperture di Obama ( vedi qui), vanno a finire nella negazione di realtà a cui veniamo sottoposti nel grande esperimento di post democrazia, post, verità, post intelligenza cui – nelle intenzioni del potere – dovremmo offrite il posteriore anche per coerenza linguistica. Un insalata mista per il mangiar sano dei neo imbecilli e dei vecchi rimbecilliti.

Sembra in ogni caso di leggere cose che riguardano un lontano passato, quando invece la rivoluzione cubana ha caratteri molto interessanti proprio per l’oggi, essendo nata come come movimento che rivendicava ideali socialisti anche se non propriamente marxisti e contemporaneamente la sovranità dell’isola dopo mezzo millennio coloniale prima sotto la Spagna, poi sotto gli Usa. Era chiarissimo che i primi non sarebbero stati nemmeno pensabili senza la seconda, visto che  il conflitto insanabile fra i pochissimi che possedevano tutto e la massa che non aveva niente, era inestricabilmente associato alle modalità della dominazione “yankee”. Gli Usa speravano e operavano perché alla fine la vittoria di Castro si risolvesse in una sorta di revisione minimale dell’assetto politico tale da lasciare inalterate le disuguaglianze, gli immensi latifondi, l’economia del bordello e gli interessi americani che gestivano di fatto gli uni e l’altra. Il merito di Castro, aiutato in questo dalle circostanze, dalla posizione geografica e dal parossistico revanchismo di potenti ambienti di Washington che portò a clamorosi passi falsi, fu proprio quello di sottrarre Cuba a un ennesima stagione di governi  totalmente subalterni agli Usa che avrebbero cambiato ben poco rispetto al vecchio regime anche se questo costò adeguamenti non proprio felici alla logiche del sovietismo burocratizzato e dispotico.

Perciò Castro divenne in un certo senso simbolo di se stesso e nel mondo libero di Selezione si pensava che una volta fatto fuori il lider maxismo anche il socialismo sarebbe crollato come un castello di carte. Questa personalizzazione era un modo per esorcizzare il pensiero angoscioso agli occhi del capitalismo occidentale che un sistema socialista potesse resistere in un piccolo Paese posto ad appena 130 chilometri dalle coste dell’impero e per di più nelle condizioni difficilissime cui lo costringeva l’embargo. Non potendo spiegare il consenso popolare di cui godeva il castrismo si decise di dipingere Fidel come un dittatore alla stregua di quelle canaglie che gli Usa imponevano in america latina e si  sfruttò al tempo stesso la simpatia che indubbiamente suscitava per focalizzare su di lui tutta la questione evitando domande imbarazzanti. Si è aspettata con ansia la sua morte per tutti gli anni ’60 e ’70, negli anni ’80 si è sperato che la caduta del comunismo in Urss significasse anche la caduta del socialismo a Cuba e la stessa cosa si è attesa  con la visita di Woytila all’Avana nella speranza che il Papa ottenesse un altro effetto Polonia. Invece vinse lui Fidel che costrinse il Pontefice a esprimersi contro l’embargo e diede anche l’impressione di essere in qualche modo sdoganato dall’angolo in cui era stato messo, dimostrando di non  temere la religione, dando un’immagine del tutto diversa del regime cubano rispetto a quella propagandata, anzi in qualche modo assolvendolo.

L’anomalia che si pensava dovesse dissolversi a contatto col capitalismo, è sopravvissuta  per molti decenni, due dei quali non sotto la gestione diretta di Fidel Castro i cui problemi di salute sono iniziati a metà degli anni ’90. Adesso che è morto, a Miami i cosiddetti dissidenti anticastristi, quasi tutti al soldo del governo federale che quando non paga in via diretta chiude tutti e due gli occhi sui traffici di droga dei quali vivono quasi in esclusiva, esultano e dicono “Finalmente”. Ed è naturalmente quasi l’unica notizia ripresa dai grandi giornali che magari vorrebbero esultare anche loro e che cominciano ad insinuare una nuova tesi per assolversi dai peccati: cioè che sia stato proprio l’embargo a tenere in vita il castrismo. Ma la festa è guastata dal sentore anacronistico che accompagna queste manifestazioni di giubilo o di riflessione del pensoso liberismo dei servi, per un obiettivo raggiunto troppo tardi, quando l’intero sistema che ha assediato Cuba sta lentamente affondando nella palude delle proprie contraddizioni, così confuso, rabbioso e disorientato, così privo di promesse credibili da dare origine ai Trump e alle Clinton, a nuovi bordelli e nuovi latifondisti del consumo e della rapina, a nuovi dispensatori di massacri, ai Fulgencio Batista del terzo millennio, mentre l’Europa senza vergogna inaugura la censura sulla stampa russa. Hasta la victoria siempre.

 

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