debt_us-479x300Ci sono notizie che non compaiono, che rimangono nei cassetti non perché siano di secondo piano, non perché siano poco glamour dal punto di vista delle vendite e dell’audience, ma perché sono pericolose. Specie se vengono dall’altra sponda dell’atlantico dove si sa che le conseguenze delle ideologie liberiste si fanno sentire prima che altrove. La notizia di cui voglio parlare è il collasso del fondo per le pensioni dei pubblici dipendenti di Dallas che ormai può pagare solo il 52% delle prestazioni e che abbisogna di 1,1 miliardi di dollari solo per poter momentaneamente continuare a vivere.

Vabbé se una rondine non fa primavera neanche un diavolo fa l’inferno, ma non è così: anche Filadelfia la quinta città del Paese è in bancarotta con quasi 9 miliardi di debiti e naturalmente con un fortissimo rischio per i fondi pensione del pubblico impiego, ma anche Houston con 1,2 miliardi da trovare e pure Los Angeles dove al pericolo per le pensioni si aggiunge anche quello dei licenziamenti di massa e più o meno lo stesso accade a Baltimora  o a New York dove il debito accumulato dai fondi pensione arriva a 14 miliardi, oppure a Oakland, San Diego, Harrisburgh, Newark, Cincinnati, Miami, Chicago, Scranton e altre centinaia di città più piccole, senza parlare di interi stati come il Connecticut, l’Illinois, la California, il New Jersey, il Michigan, per non palare del Minnesota o di Detroit o della colonia portoricana.

Il fatto è che dopo la crisi del 2008 molti fondi pensione hanno perso cifre consistenti e successivamente i versamenti dei contributi pensionistici sono saliti alle stelle mentre gli assegni si sono enormemente smagriti lasciando un panorama desolato di debiti da speculazione e di pensionati così poveri da dover fare lavoretti di ripiego generando così una buona parte dell’ “occupazione statistica”. E va ancora bene perché oltre 120 milioni di americani non sono in grado di pagare i contributi per la pensione e se hanno un lavoro stabile questo da dopo la crisi solo raramente prevede contributi da parte della aziende. Tutto questo mostra come il sistema privatistico sia assolutamente inadatto a coprire servizi e tutele universali quando le risorse diventano più rarefatte e quando scema la crescita da rapina di cui gli Usa hanno goduto per un secolo e mezzo.

La seconda cosa è che questa immensa mole di debiti locali non viene conteggiata in quello complessivo per cui il dato ufficiale Usa di un rapporto debito – Pil al 105 per cento è in realtà completamente sballato e in effetti gli States sono teoricamente messi peggio dell’Italia e persino della Grecia, il che evidentemente non è problema per loro come non lo è per il Giappone che ne ha uno ancora più grande: una dimostrazione di come tutto l’armamentario monetaristico e austeritario che ha ucciso l’Europa sia nient’altro che un pretesto per imporre politiche reazionarie. Evidentemente il problema non è il debito, ma una concezione sociale, politica e antropologica che è arrivata ai suoi limiti, almeno nella versione contemporanea che grottescamente si rifà, dopo l’occasione perduta di Keynes, a ideologi cresciuti fra la piccola nobiltà austroungarica e mi riferisco a quella scuola von Mises, von Wieser, von Hayeck che rappresenta al meglio la mostruosità del connubio fra un’idea nostalgica di disuguaglianza di origine dinastica e un strumentale concetto di libertà concepita sotto il segno di Darwin (o meglio di quello che si crede abbia detto Darwin). I grandi gruppi, le fondazioni dei super ricchi, i potentati finanziari (parliamo di DuPont, General Electric, Fondazione Mellon, fondo Volcker, Koch industries, solo per fare alcuni nomi fa i tanti) hanno fatto un gigantesco sforzo finanziario e di propaganda per diffondere questi patetici revanscismi di classe nelle università, per creare scuole e accademie che le ripetessero, adepti che le urlassero, per comprare media che ne fossero aedi e persuasori, insomma per costruire con questa sabbia non soltanto un’ egelmonia culturale, ma un plausibile programma politico.

E’chiaro allora che se cominciano a moltiplicarsi le bancarotte lasciando nella povertà milioni di persone, il problema non sarà quello di sovraccaricare le tipografie della Federal reserve, quanto quello dell’esplosione sociale che già si annuncia negli esiti delle elezioni americane e poco importa se l’eletto è in certo senso il prototipo del capitalista contemporaneo. O meglio importa perché evidentemente la saturazione di conformismi, teorie elitarie, propaganda, immoralità sostanziale, egoismo è tale che non sembra esserci lo spazio pratico e ideale per una narrazione politica differente o almeno per qualche verità che riesca a brillare oltre la densa melma dell’ormai intollerabile mantra del sogno americano di Fox e compagnia filmante. Così si finisce per sbattere come una falena sulla lampadina.