Scuotiamo la testa e cambiamo canale perché niente è più deprimente delle campagne pubblicitarie a tappeto, ossessive come altoparlanti nei campi di riso di Pol Pot, specie se da anni ripropongono il favoloso sconto che scade domenica ogni domenica. Una presa in giro – peraltro già sanzionata in passato con 500 mila euro di multa per pubblicità ingannevole e poi non riproposta visto che i criteri della pubblicità ingannevole sono in ingannevoli essi stessi – che dovrebbe avere un effetto controproducente, distruttivo ma che invece riesce ancora a catturare clienti lavorando sulla bulimia di consumo. Per questo la pubblicità di mobili che tutti conosciamo non è solo quella roba da acchiappa citrulli che vediamo, ma una metafora della contemporaneità
Tutto in quegli spot è inverosimile: dai i romagnoli doc che in sostituzione della ciaciona popolar romana, compaiono ad asseverare non soltanto l’italianità vernacolare del prodotto, ma anche la sua radicata immersione nella tradizione, ai sedicenti sconti che in realtà sono semplicemente un modo per aggrovigliare i listini e nascondere una realtà di per sé evidente: quei prezzi non sarebbero possibili se davvero i mobili fossero costruiti dagli “artiggiani della qualità” con materiali di pregio e men che meno potrebbero essere praticati con i molti, moltissimi milioni di pubblicità spesi ogni anno. Invece facendoli apparire come sconti, la trappola viene occultata meglio con una tattica peraltro usata non solo dai concorrenti, ma ben radicata in ogni settore. Il marchio stesso non è nulla, non certo la fabbrica dove ci si tramanda il lavoro di padre in figlio, ma un logo, un’impresa immateriale il cui scopo è produrre spot per vendere prodotti fatti da altri. E’ del resto la struttura della deindustrializzazione contemporanea che al posto della fabbrica mette l’ufficio commerciale che inventa, marchi e parole per oggetti del desiderio.
Se l’uomo fosse quell’essere razionale con cui si baloccano gli economisti, queste imprese sarebbero defunte già da un pezzo perché quei divani, quei salotti sono in realtà costruiti a una frazione del prezzo di vendita dai cinesi, che dopo la fase della delocalizzazione all’est hanno invaso i due distretti del mobile a Matera e a Forlì. Cinesi che lavorano anche 14 – 16 ore al giorno su ordinazione, cinesi con le loro famiglie allargate a noi imperscrutabili per un pugno di riso e una piadina, cinesi sfruttati e cinesi sfruttatori che sono totalmente al di fuori delle regole ufficiali. Altro che lavoro italiano. Non che in Cina manchino gli artigiani della qualità, anzi si sa che essi hanno una invidiabile e del resto proverbiale abilità manuale, ma non sono quelli che vengono qui: per lavorare in maniera semindustriale col compensato (probabilmente proveniente dall’est europa), con stoffe di origine sconosciuta e con modelli standardizzati nei quali è scomparsa ogni traccia di gusto e di innovazione non ci vuole molto. Ci vuole solo la disponibilità a sgobbare: l’invasione cinese non è priva di motivi, si lega al progressivo declino di un settore in carenza di idee, di voglia di investire, di progettare e rinnovare, di una strategia che non fosse solo quella contabile e del profitto a cui la crisi economica non ha dato che il colpo di grazia. I licenziamenti sono stato il lancio di zavorra con la quale i principali protagonisti del mercato hanno tentato di rimanere in volo, ma senza riuscire perché non era una questione di peso, ma di mancanza di spinta. Gli artigiani sono scomparsi da un pezzo assieme alle loro piccole aziende e i cinesi non hanno fatto altro che riempire questi spazi abbandonati oltre che le pance e i portafogli di pochissime persone che guadagnano dai loro marchi apparenti e li investono poi chissà dove.
D’altra parte il fenomeno era ed è impossibile da arginare sia perché non si possono improvvisamente invocare regole del lavoro da sempre considerate come fumo negli occhi dalla piccola imprenditoria, sia perché nessuno ha voglia di perseguire lo sfruttamento del lavoro umano in un contesto nel quale si colpevolizzano i lavoratori per la loro resistenza all’abolizione dei diritti e alla caduta dei salari. E’ davvero straordinario e avvilente come nei mesi scorsi sia sia levata tutta una canea polemica con teste d’uovo e di gallina in prima fila contro il burkini che violerebbe una supposta e strumentale occidentalità, mentre la medesima occidentalità non pare abbia nulla da dire sullo schiavismo nel lavoro. Non almeno fino a quando i cinesi o chi per loro non si compreranno anche gli uffici e le sedi dei marchi, riducendo a semplici impiegati, mal pagati, com’è giusto, gli illusi e i credenti nelle magie della contemporaneo: altigiani della qualità.
ahi. Ahi !.
Gli economisti non hanno mai parlato di uomo come ente razionale. Semmai, hanno parlato di homo oeconomicus, quello che persegue il massimo vantaggio-utilità col minimo sforzo economico
Anche la morale relativa è utilitaristica, il massimo vantaggio per il maggior numero di persone. Non è universalismo, cospicue minoranze possono essere sacrificate per il maggior profitto dei più.
Quello che fino a ora abbiamo visto in italia, e che Minutolo denunzia, Minoranze di extracomunitari che girano l’Iitalia in condizioni schiavistiche per raccogliere frutta e verdura, altrettanto i cinesi a produrre mobili o per marchi di abbigliamento. Solo con la crisi anche tanti italiani vengono risucchiati in questi inferni, l’ex minoranza povera progressivamente diventa maggioranza
I fenomeni descritti da Minutolo sono perfettamente congruenti con l’ homo oeconomicus. Ma Minutolo vuole indurre a credere che tali fenomeni siano in contraddizione con l’etica dell’economia di mercato e capitalistica, ma non è così
Evidentemente Minutolo confonde l’homo oeconomicus con l’uomo ente razionale, di cui ha parlato in epoca moderna principalmente l’ idealismo tedesco. Evidentemente il Simplicissimus si è costruita un idea tutta sua di ciò che è il mercato ed il capitalismo, e vorrebbe portare il capitalismo reale a coincidere con queste sue produzioni ideologiche.
Pur stimabile per l impegno quotidiano e lìintelligenza profusa a decrittare la realta in cui viviamo ( spesso ci risparmia la fatica di di leggere tra le righe dellìinformazione di regime, e tra quelle della controinformazione complottista piena di bufale, il tempo è prezioso)
Del pari Minutolo sembra l’ayatollah o il prete ascetico protestante che deve fare il suo sermone sulle virtù del capitalismo industriale e produttivo, del lavoro ben fatto, dei valori civili conseguenti.
Ma minutolo la conosce la storia della rivoluzione industriale,delle trasformazioni o demolizioni sociali partorite dal capitalismo in processo, quello reale? E le condizioni di vita nelle fabbriche che non sono mai cambiate realmente?
Stupefacente , da parte di uno che ama l’unione sovietica tanto è vero che mette “Diamat” nel suo indirizzo e-Mail. O Forse lo stesso sfruttamento lo vuole solo da parte di un capitalismo “di stato”
Ma più probabilmente il capitalismo come soggetto automatico e feticista ( finchè ne ha la forza) ha sussunto anche la testa di Minutolo
Dal divanazzo—il gentilmente offerto—tu passi di rollata al materasso che ti viene aggratis; poi, carrettandoti elettrico al felice, rotoli al bar dove ci bevi—senz’identità—Celest’impero
Si noti che il lavorare dei cinesi in condizioni di evidente illegalità potrebbe anche essere sanato dal governo dichiarando le due aree di Forlì e Matera zone economiche speciali, magari giustificandole all’interno di un accordo quadro di collaborazione tra Italia e Cina.
Le zone economiche speciali, per chi non lo sapesse, sono aree industriali di una nazione in cui non valgono le leggi e le tutele previste per il resto dei cittadini. In pratica è uno dei vari modi con cui si utilizza il manto generoso della legge (lex non olet) per nascondere il degrado dei valori del lavoro e lo schiavismo o para-schiavismo di fatto. A questo punto si capisce anche come l’illegalità, non essendo più avvertita come un fatto etico dalle leadership ma come un evento che è illegale solo per la mancanza di una norma che la renda legale, può sempre essere sanata a posteriori. Non sta succedendo la stessa cosa anche per Uber e per l’intera economia dello sharing in procinto di essere sdoganati da una provvidenziale legge del nostro Parlamento?
Annoto anche che la storia dei recenti insediamenti cinesi nel mondo e la costituzione di Chinatown in tutte le principali città del globo meriterebbe davvero di essere scritta per evidenziare le caratteristiche di discrezione e poco chiasso con cui sono state realizzate, discrezione che peraltro non esclude ma anzi implica, a mio modo di vedere, una programmazione politica bilaterale tra paese ospitante e autorità cinesi. Cinesi come grandi lavoratori a buon mercato, dunque, ma anche, geopoliticamente, cinesi come teste di ponte che consentirebbero un domani a Pechino interventi militari allo scopo di “proteggere” i propri cittadini.
PS La stessa discrezione sembra operare quando si tratta di capire quanti “gioielli di famiglia” cediamo ai cinesi su base mensile, trimestrale o annuale. C’è qualche sito che tenga la contabilità di quante aziende e marchi italiani sono ormai nelle mani di gruppi privati o statali cinesi? Nel 2015 anche la Pirelli se ne è andata, forse faremmo prima a far l’elenco di chi ci è rimasto!
PPS Nessun acrimonia anti-cinese, anzi. Ne sto studiando con entusiasmo la non facile lingua e sul sito Quora (quora.com) comincio a conoscere il modo di pensare e ragionare dei cinesi attraverso la loro viva voce. Interessante.