31dbs03g01_01_01-k1ad-u43040223998525lud-1224x916corriere-web-bergamo-593x443Visto che si ritorna a parlare di Ponte sullo stretto, sia come compensazione affaristica per le Olimpiadi mancate, sia come specchietto per le allodole in vista del referendum, sia come nuova ipotesi di patto con la parte più oscura del Sud attraverso una grande opera del tutto inutile senza prima mettere mano alla strutture fatiscenti di Calabria e Sicilia, c’è da incazzarsi e dire che non se ne può più, che è ora di uscire  da una logica perversa che costa montagne di miliardi, sottratti al welfare e alla dignità dei cittadini, in cambio di opere gadgets. E che dietro la presunta innocenza di teorie e prassi economiche, si nasconde in realtà il contrario della ragione e del buon governo.

Certo il guappo ci mette del suo per far intravedere il futile e il marcio dietro il sipario , ma ricordo benissimo i turibuli al vento quando si decise di dare inizio alla costruzione della Brebemi ovvero della nuova autostrada Brescia – Milano, calco di un futuro fondato sul privato e sul project financing, l’immancabile inglesorum per i citrulli che in realtà non vuol dire proprio nulla dal momento che indica come le spese di progetto verranno coperte dai ricavi di cassa del progetto stesso, ovvero  la forma base e ovvia di qualsiasi impresa: investimento e ricavo dalla produzione sia essa materiale o immateriale. Però il capitalismo è molto abile a creare parole per fingere un progresso e nel caso italiano esse vengono usate per nascondere un regresso, in questo caso l’affidamento a privati di servizi universali che essi concepiscono giustamente in ragione dei loro profitti. Con un vantaggio però che i finanziamenti stessi per la loro utilità generale vengono garantiti almeno in gran parte dai soldi pubblici, se non sono direttamente soldi pubblici quelli che vengono prestati come è accaduto per la Brebemi dove il grosso è stato scucito dalla Cassa depositi e prestiti. Dunque si può osare sul velluto e in accordo col milieu politico mettere in piedi opere, magari devastanti per l’ambiente, di scarsa utilità i cui ricavi si rivelano poi di gran lunga inferiori a quelli ipotizzati per favorire il grande affare.

Così la logica si inverte, si fa ciò che porta profitti a pochi, non ciò che serve.E se poi se l’errore è clamoroso, niente paura interviene lo Stato. Così adesso per salvare l’impresa che vede un traffico di due terzo inferiore rispetto a quello preventivato come il minimo per ripagare i costi , si sono dovuti regalare 320 milioni a fondo perduto, più altre consistenti cifre nell’ambito di un piano di finanziario di recupero, il che non ha impedito agli 11 consiglieri di amministrazione della Brebemi di aumentarsi lo stipendio e portare i loro assegni annuali a 626 mila euro l’anno. Del resto per tenere in piedi l’impresa la concessione è stata aumentata di sei anni (e dire che il consorzio aveva vinto basandosi sulla brevità di quest’ultima), gli azionisti incassano un rendimento garantito del 6,8% sul capitale investito e dulcis in fundo avranno diritto a una buonuscita di 1,2 miliardi di euro. Avranno la pancia bella piena nonostante siano autori di un’impresa fallimentare.

E badate il fallimento non è solo frutto di destino e di errori. Certo nel 2009 anno di inizio della costruzione la crisi già c’era, ma si pensava sarebbe passata in fretta con la tipica ottusa arroganza liberista. Però era proprio di base che il progetto non funzionava: che senso aveva costruire un autostrada il cui pedaggio è del 50 %  superiore a quello della Milano Bergamo Brescia per ovvi motivi di recupero spese, che passa per un territorio agricolo con scarsa densità di popolazione e che per di più permette di risparmiare solo 4,4 chilometri? Le centinaia di ettari di terreno produttivo bruciato dal nuovo nastro d’asfalto e i 2,4  miliardi spesi che alla fine graveranno sul bilancio pubblico, valgono questo misero risparmio che oltretutto si traduce in un pedaggio molto più alto? Chiaramente no, com’è ampiamente dimostrato dall’insuccesso: quell’autostrada si è fatta non perché servisse davvero, ma perché sembrava un buon sistema per fare soldi. Del resto Maroni che stanziò a suo tempo 60 milioni a fondo perduto per l’opera mise nella Autostrade Lombarde, la società controllante, un suo uomo di fiducia, tale Andrea Mascetti, personaggio che svolge “una intensa attività di ricerca storica e archeologica sui popoli celtici, germanici e alpini”, dunque un vero esperto di traffico e di autostrade. Ma non ce ‘era bisogno: bisognava essere esperti di ben altre cose.