obama-clinton-trumpTriste, solitario y final. Così appare il presidente Obama alla fine definitiva del suo regno, come qualcuno che non è riuscito per anni a dare ascolto a se stesso, alle sue promesse tradite e che alla fine nessuno ascolta più, tanto che qualche area di governo ombra lo ha messo di fronte al colpo di mano militare contro la Siria, il cosiddetto “errore” che invece di colpire i terroristi  ha fatto strage di soldati siriani, mandando all’aria accordi che qualcuno a Washington  non aveva alcuna intenzione di rispettare. Del resto da anni il governo reale dell’impero, avendo compreso l’inadeguatezza amletica del personaggio, gli ha forzato la mano assoldando ogni tipo di avventurieri, di ongisti (i sedicenti umanitari), di arancioni, di terroristi, per portare avanti l’antico progetto di dominio sul medioriente e l’isolamento della Russia, necessario per il confronto la Cina, il grande spauracchio americano. Un progetto tutt’altro che lucido, anzi nemmeno un progetto vero e proprio, ma un patchwork di ciniche suggestioni ereditate dal passato, imperialismi multinazionali, lavorio di lobby e di servizi segreti, imposizioni di cartelli, insomma di tutto quell’apparato che ormai costituisce la vera governance degli Usa e che passa quasi totalmente sulla testa dei cittadini, ossessivamente educati all’eccezionalità e bombardati ogni minuto da una propaganda ossessiva che non risparmia nemmeno il più desolante prodotto televisivo. Cosa che poi si traduce in un indice di eguaglianza che è tra i più bassi al mondo 168° su 176.

Bisogna partire da questa constatazione dell’impotenza di Obama o meglio della presidenza che con lui diventa palese, anzi acquista un che di tragico e di enigmatico, per capre quale sia la reale natura della battaglia elettorale fra Trump e Hillary Clinton, tra due partiti che esprimono in realtà il potere dell’oligarchia e sono semplicemente espressione di due sfumature dentro un pensiero unico, che sono e  rimangono un duopolio il quale impedisce agli Usa di evolversi politicamente oltre il progetto fondativo e oltre la retorica del sogno americano. La parte più conservatrice, che fa riferimento sia all’immenso contado agricolo che al tessuto industriale medio e piccolo con un mercato essenzialmente nazionale  è repubblicana a cui adesso si aggiunge una parte di ceto medio in crisi, è con Trump, quella delle grandi multinazionali, di Wall street, della finanza, insieme ai ceti popolari delle grandi città alla ricerca del sogno americano piuttosto che della stabilità sta con Hillary.  Ovvio che quest’ultima parte è quella più disponibile alle avventure e al globalismo oltre che disponibile a una immigrazione controllata purché fornisca braccia a basso costo, non tutelata da nessuno.

Non si tratta certo di una battaglia inedita, ma in questo caso assume una chiarezza e una drammaticità mai attinte prima, sia per la natura dei contendenti – absolute beginner milionario e speculatore contro navigata first lady in via di rincoglionimento e legata al complesso militar industriale –  sia peril consistente dubbio sulla possibilità  che gli Usa riescano più a sottrarsi alle logiche dell’impero, sulla constatazione che ormai facciano affidamento esclusivo sullo strumento militare per rimanere la potenza egemone. E che la Casa Bianca conti sempre meno nelle scelte finali, spinta, accerchiata, costretta a fare la volontà delle aggregazioni di potere e alla fine, come è accaduto ad Obama, di seguire la corrente e fare discorsi. Insomma si tratta di un passaggio di epoca testimoniata, non solo dagli eventi che si addensano, ma  dalla modestia dei personaggi che si contendono la poltrona, dalla loro natura di segnaposti. Quella sensazione che il presidente nero sia in qualche modo un epigono.