flavio-briatore-480x320Cosa abbiamo fatto di male per dover sopportare anche Briatore che sputa sulla Puglia in nome della cialtroneria globalista così com’è vista e vissuta da un ricco e stupido cafone made in Usa? A lui della natura e della cultura, del paesaggio e della bellezza, della regione, considerata da National geographic come la più bella del mondo, insomma del turismo di qualità  non importa nulla, così come non importa nulla ai suoi clienti, quelli del sogno che sono appunto senza qualità, ma solo fatti marci e banali puttanieri capaci unicamente di sfruttare il lavoro altrui. In questa nota alla fine del post riassumo chi è davvero Briatore, ovvero un ambiguo ed equivoco personaggio, di modestissima intelligenza, ma disposto ad ogni cosa pure di rimanere a galla. E ogni cosa, significa proprio tutto. Quindi il fatto che egli in vista dell’apertura del suo ultimo bordello di lusso il Twiga, vicino Otranto abbia espresso la sua filosofia turistica di tipo tailandese non stupisce di certo: “Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco ma non porterà qui chi ha molto denaro. […] Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e masserie, prati e scogliere: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento”.

Quello che Briatore non dice è che questo turismo di super lusso di stampo terzomondista (quanti ne vediamo, sparsi per il mondo) cioè del tipo maso chiuso ma tempestato di paillettes è davvero il meno adatto a sviluppare un’economia diffusa: il 90 per cento va nelle mani di Briatore e collaboratori, in quelle di importatori di cibo e bevande del lusso, alle agenzie lontane che forniscono carne fresca non precisamente bovina e a qualche corriere sud americano. Tutto viene da fuori e solo una minima parte – qualche stipendio da miseria, un po’ di trasporti e pochi elementi di base reperibili in loco – vanno ad alimentare l’economia locale. Questi posti sono esattamente come i mostruosi mega condomini naviganti ai quale, grazie ad amministratori dementi e al velo di omertà a pagamento, si permette di entrare a Venezia collaborando alla sua distruzione: una marea di crocieristi satolli come le galline da ingrasso, va ad intasare e lordare tutto senza comprare nemmeno un bottiglietta di minerale. Le imprese del tipo Twiga sono la stessa cosa, non cattedrali nel deserto, ma cattedrali che desertificano e che se fanno crescere qualcosa è semmai la criminalità e la corruzione: lo sfogo di Briatore che parla dell’allergia dei supericchi ad ogni forma di contatto con l’ambiente e la volontà di crearsene uno vacuo, anodino e impudente, lo testimonia; però lui fa la voce grossa perché chiede,  in vista della sua impresa, come è ormai prassi del liberismo, che siano i soldi pubblici a pagare strade, aeroporti, servizi, porti turistici per permettergli di intascare La coda  Se li vuole che se li paghi, ammesso che abbia mai pagato qualcosa in vita sua e non sia stato un eterno prestanome.

A poco a poco ci stiamo trasformando in terzo mondo e aderiamo alle forme di economia coloniale che sono tipici dei Paesi poveri: da possibili albergatori diventiamo precari camerieri ai piani, da possibili ristoratori a sguatteri di cucina, da possibili custodi di un paesaggio e della sua cultura a mezzani. E tuttavia, al di là degli esiti locali,  più nascono queste case chiude da ricchi più mi consolo: essi rappresentano il culmine e al tempo stesso la fine di un ciclo, sono le piccole Versailles della borghesia, dove il re Sole è rappresentato dal denaro e dalla speculazione. Si chiudono nei lussuosi recinti avvertendo come la nobiltà del XVIII° secolo che il loro mondo è al tramonto per esaurimento della logica che lo ha sostenuto. Sembrano all’apice e in qualche modo lo sono, ma le deluge è in agguato e così si isolano dentro bolle di lusso fine a se stesse esercitando vizi vuoti e patetici che denunciano contemporaneamente il loro potere e la loro inesistenza, felici solo di strappare la bellezza a chi non se la puà permettere. Non si mischiano perché non sopportano la loro cattiva coscienza e perché cominciano vedere la loro trasformazione da modelli seguiti e inseguiti in oggetti di odio e di disprezzo. il processo è lento, a macchia di leopardo, ma inevitabile. Buon soggiorno with compliment di Briatore.

Nota

Lo sborone che si finge manager in tv non era un fulmine di guerra: bocciato a ripetizione nel tentativo di prendersi il diploma di geometra, riuscì a conquistare  il pezzo di carta da privatista con il minimo dei voti: si racconta che abbia presentato una tesina sulla costruzione di una stalla che non pare essere proprio l’apice della sofisticazione costruttiva. Ma a Cuneo dove è nato e vive diventa ragazzo di mondo pur senza aver fatto il militare: un po’ playboy nella sua funzione di maestro di sci, un po’ imprenditore con un ristorante che in pochi mesi fallisce, si arrangia, “tribula” in dialetto locale che infatti diventa il suo soprannome. Però a forza di tribolare in molti mestieri e affarucci senza alcun successo arriva anche per lui la grande occasione: conosce non si sa bene in quale occasione e per quali motivi, Michele Dotto che lo prende come assistente personale. E in questo “personale” c’è qualcosa di oscuro che si ripresenterà spesso nella vita di Briatore.  Dotto era un imprenditore edile, ma con molte diramazioni, tanto che aveva rilevato la Paramatti Vernici da Michele Sindona, un personaggio che solo a nominarlo evoca mafia e finanza. Pregiudizi, di certo: fatto sta che il 21 marzo del ’79 l’imprenditore salta in aria con la sua auto a cui era stata applicata una bomba.

Il minimo che si può dire è che forse gli affari di Dotto non erano proprio chiarissimi e chissà se ne sapeva qualcosa il suo assistente che come nei migliori romanzi sparisce da Cuneo per ignota destinazione, così come spariscono 30 miliardi, una somma gigantesca all’epoca, appartenuti a all’imprenditore e mai ritrovati. Lui, Flavio,  riappare invece a  Milano dove si dà arie da finanziere, ma in realtà coltiva i favori di un nuovo protettore, Achille Caproni, proprio quello delle industrie aeronautiche. Le doti di seduzione di Briatore funzionano benone, ma non altrettanto le sue capacità: convince Caproni a comprare la Paramatti Vernici e a metterlo alla testa della Compagnia Generale Industriale, ma provoca un crack da 14 miliardi e la chiusura di molte aziende.

Certo come biglietto di presentazione per fare il giudice, sia pure televisivo, di aspiranti manager non è un granché, soprattutto quando lo si sente dire che per lui il libro delle scuse ha poche pagine. Ma intanto si è fatto un giro di tutto rispetto nella Milano da bere: va in giro con Iva Zanicchi dicendo di essere agente discografico, frequenta e dà feste, si circonda di modelle come carta moschicida per gonzi infoiati, ma soprattutto conosce e si offre ai vizi dei potenti. E insomma organizza una sorta di banda per trovare e spennare polli al tavolo da gioco. I fili della truffa venivano tirati da eredi del  clan Turatello mentre Briatore agiva assieme a un altro personaggio che a tempo perso, soprattutto per telespettatori e lettori, faceva il giornalista: Emilio Fede. Dopo aver svuotato le tasche di personaggi noti e potenti come Sanson, quello dei gelati e il cantante Pupo, incappa in un inchiesta giudiziaria ed è costretto a scappare a Saint Thomas, nelle Isole Vergini dalle quali tornerà solo dopo un amnistia.

Probabilmente fare il cerca polli era un’attività lucrosa, ma secondaria, un’occasione per prendere e tenere contatti tra gente che conta ed essere coinvolto in affari assai poco chiari: il suo nome rientra anche in una vicenda da 330 miliardi delle Generali finiti dentro un affare complicato e con infiniti passaggi che alla fine dovevano servire a Gheddafi per aggirare l’embargo sulle armi. E nella sua agenda compare anche un numero di New York, il   212-833337, accanto al nome “Genovese”. L’inchiesta sulla attività della banda di biscazzieri accerta che il numero è quello di un azienda di John Gambino.

Fatto sta che durante l’esilio alle isole contatta un vecchio amico di feste, Luciano Benetton, conosciuto per tramite di Romano Luzi, maestro di tennis di Silvio Berlusconi e poi suo factotum  per i fondi neri. E l’imprenditore tessile gli affida l’apertura di negozi in franchising in Usa e nei Caraibi, impresa che riesce facilmente (pensiamo a quel numero di New York), ma  mediocremente, tanto che alcuni punti vendita dovranno essere chiusi. Anche come fiduciario di Benetton per i negozi americani il tenore di vita che Flavio fa tra le spiagge del Caribe  non è facilmente giustificabile come fa intendere la ex modella  Marcy Schlobohm, con cui conviveva già a Milano e divenuta sua prima moglie alle Isole Vergini. Misteri. Ma evidentemente non tali da impedire che Benetton affidi a Flavio un suo giocattolo, la scuderia di Formula 1 organizzata più per pubblicità che per reale intenzione di sfondare nel mondo dell’automobilismo.

E da lì che il biscazziere, porteur, venditore, uomo d’affari opachi Flavio Briatore arriva agli onori delle cronache, soprattutto per un colpo di sedere: nel cercare di ingaggiare i piloti che al tempo costavano meno si imbatte in Michael Schumacher. Due campionati vinti con il grande pilota, poi un lungo vivacchiare fino a una radiazione poi rientrata. Tutte cose abbastanza note e che hanno trovato il loro diapason nel Billionaire, il locale messo in piedi come un’ auto celebrazione del proprio mondo oscuro e vacuo. Certo ai suoi aedi sfuggono facilmente altri fatti degli anni 90: il suo coinvolgimento in un’inchiesta  di mafia per essere stato ascoltato in conversazioni telefoniche con Felice Cultrera all’epoca uomo del boss Nitto Santapaola o la bomba che fece saltare la porta della sua casa londinese del ’93 e che la polizia inglese considerò un attentato dell’Ira.

Adesso è lui che fa il boss in televisione, fingendosi un duro e severissimo manager davanti al grande pubblico, come del resto ha sempre fatto nei salotti. Un altro basso servizio, questa volta fatto direttamente  alla menzogna. E’ l’auto che sbanda, con Twiga a manetta, è la nostra società che è sul filo del precipizio.