Anna Lombroso per il Simplicissimus

Vaucher, buoni, buoni soprattutto per drogare i dati dell’occupazione in modo che i lavori occasionali rientrino nelle statistiche e anche chi presta la sua opera un’ora alla settimana esce automaticamente dalla categoria seccante dei disoccupati. Mentre si riduce il numero dei contratti stabili a smentire la volonterosa propaganda dell’Istat, a sostegno del Jobs Act.

È che sono poco informati gli stregoni del governo, altrimenti imporrebbero per legge quelli che in alcuni paesi faro della civiltà si chiamano “redditi psichici”, forme di risarcimento emozionale e mentale per la cancellazione reale di diritti e garanzie. Si va da banche britanniche nelle quali anche il fattorino può fregiarsi del titolo di vice president, ai banconieri delle catene di fast food insigniti della qualifica di manager, come già fanno volontariamente camerieri di pizzeria a Londra o inservienti di B&b del babbo a Firenze, intervistati sulla giovane imprenditorialità nazionale,  dai grandi magazzini californiani nei quali anche i commessi hanno lo status di associati anche se non hanno conquistato ancora l’assistenza sanitaria, a altri succedanei o surrogati di prerogative offerti al posto del dovuto, dell’obbligatorio, dei diritti, fino alla trovata molto in uso in Giappone: una specie di punching ball con l’effige di un capo sui quali i fantozzi possono accanirsi a sculacciate o a quella altrettanto gratificante, raccomandata dalle linee guida per la soddisfazione dei dipendenti di alcune corporation, di incrementare la fisicità positiva tra capi e subalterni tramite vaci, abbracci e manate sulle spalle.

Ma anche qui non si scherza nel rendere concreto e praticato quel principio cui guardano i nostri “riformisti”, quello della necessaria collaborazione tra imprenditore e dipendente, tra padrone e lavoratore. Basta pensare alla politica previdenziale dei governi che si sono succeduti, talmente compreso della convinzione che “siamo tutti nella stessa barca” che ha prodotto un effetto aberrante, un abominio mai raggiunto prima. Da quando cioè il lavoratore è davvero diventato associato come nei centri commerciali californiani, o meglio investitore, conferendo i suoi soldi  in un fondo pensioni rappresentato nel consiglio di amministrazione della sua azienda con il diritto a votare processi di ristrutturazione, delocalizzazione e paradossalmente il suo stesso licenziamento. E sai che soddisfazione rovinarsi, come si direbbe a Roma, con “le mani sua”, un azionista che caccia il se stesso operaio, paradigma esemplare della scissione schizofrenica del capitalismo che si riverbera obbligatoriamente sulle sue vittime.

Era stato un ministro del centro sinistra riformista, quel fronte che ha provveduto a abbattere ogni tabù morale per imporre la legge di “libera volpe in libero pollaio”, a propagandare le prime azioni in favore di precarietà, mobilità, licenza di licenziamento, lavoro nero e conseguenti e inevitabili  morti bianche, grazie allo slogan marinaro di “siamo tutti nella stessa barca”. E dobbiamo a lui, Sacconi, insieme a una transfuga 5Stelle passata alla maggioranza, la proposta di una semplificazione del Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, necessaria a “allinearsi ai cambiamenti intervenuti nei processi produttivi … che  offrono una continua evoluzione delle prassi e delle tecniche con cui rendere più sicuro il lavoro”. E vallo a dire a Giacomo Campo,  25 anni, morto nello stabilimento Ilva di Taranto schiacciato tra un rullo e un nastro trasportatore o ad Alleovi Antonio,   54 anni, elettricista dell’azienda di trasporto romana, folgorato  su un pantografo. O ai quasi 500 morti sul posto di lavoro, censiti da inizio  anno a luglio, grazie all’opera di osservatori indipendenti, primo tra tutti quello di Bologna, perché se il Pil ha l’Istat, le cosiddette morti bianche che più nere non si può, hanno il loro trasmettitore ufficiale  nell’Inail che non a caso annovera solo le vittime iscritte all’Istituto, omettendo irregolari, clandestini e quelli che rubano i posto agli italiani, bara compresa.

L’unica fabbrica davvero attiva  del Paese, quella delle menzogne, produce un fiction secondo la quale il mondo del lavoro non è più quello rigido della catena di montaggio  ed è giusto pretendere dai lavoratori autonomia di decisione, spirito di iniziativa, dinamismo e disponibilità al cambiamento. E di conseguenza se  un imprenditore ha dato ordine di allestire e attivare  tutti i sistemi di sicurezza e di prevenzione necessari, quelli garantiti dalle magnifiche sorti e progressive della modernità, ma avviene un incidente, non ha nessuna responsabilità. La colpa è di eventuali preposti alla sicurezza, perfino dello stesso operaio che ne è vittima, proprio come hanno preconizzato recenti sentenze che hanno spazzato via quelle epocale del 2011 sulla Thyssen, successivamente “impoverita” e delegittimata  quando è stata respinta nel 2014 l’ipotesi dell’omicidio volontario. L’obiettivo della “riforma” è naturalmente quello dare una mano ai padroni, vessati da norme e multe punitive della libera iniziativa, dell’imprenditorialità, tanto che il binomio Sacconi-Fuksa lo ammette e lo scrive con impunita e sfrontata faccia come il culo, se nella relazione sottolineano come oggi la sicurezza sia “un accessorio burocratico detestato perché subito dal timore di sanzioni sproporzionate”, che va sostituito da autodichiarazioni, da certificazioni volontarie, suffragate da organismi e figure cosiddette “indipendenti”, le stesse che accertano e autorizzano la  sostanziale eliminazione dell’obbligo di vigilanza a capo del datore di lavoro con l’auspicato “trasferimento della responsabilità a dirigenti, preposti e lavoratori stessi”.

La soap del lavoro defunto che produce altri morti tra i lavoratori, quelli soprattutto che sfuggono alla contabilità di regime e che aumentano malgrado il calo dell’occupazione, è sconfessata da un panorama fatto di precari, facchini, dipendenti di imprese di pulizia, braccianti agricoli, operai metalmeccanici, muratori di cooperative “opache”,  milioni di lavoratori per i quali la tecnologia  è rappresentata da un pc in azienda e la ristrutturazione del mercato ha significato un’intensificazione dei ritmi, della pressione psicologica, delle prestazioni richieste, dell’egemonia del ricatto e del dominio dell’alternativa tra salute e posto,  e quindi un aumento inevitabile dei rischi e delle malattie professionali.

È che più che sulla stessa barca, ci hanno messi sulla zattera della Medusa, come naufraghi che non vedono la salvezza in un porto sicuro. E allora, cosa ne dite di buttare in mare loro?