Anna Lombroso per il Simplicissimus

Pare sia necessario ricordare al gentile pubblico del web che se cadono delle bombe su un villaggio, facendo un’ecatombe di vittime inermi, la colpa non è degli ordigni e nemmeno dei droni, ma di chi li ha manovrati nell’asettica e “chirurgica” indifferenza di una sala comandi, o in uno studio ovale, in una guerra nella quale le vecchie concezioni di  corpo a corpo sono diventate obsolete, così astratta che nessuno si sente davvero investito della responsabilità di quell’uccisione anonima, noi compresi che ci sentiamo assolti grazie a un altrettanto astratto rifiuto umanitario della violenza. A meno che, ovviamente, non sia legittimata dalla opportunità di contrastare vari flagelli, non bene identificati, nell’eterno duello tra Bene e Male.

Altrettanto se una ragazza viene travolta da uno scandalo e si suicida temendo lo stigma infinitamente ripetuto, la condanna alla memoria perenne di una sciocchezza, l’anatema inesauribile della comunità benpensante o guardona o pruriginosa, la colpa non è dei social network, largamente criminalizzati in questi giorni, perché, si sa, non viene mai persa l’occasione per  proporre benefiche limitazioni di libertà, provvidenziali censure, dettate da una pietas pelosa e intermittente.

Il fatto è che tutto concorre a liberarci dalla responsabilità, verso noi stessi e verso gli altri. Grazie all’egemonia della delega, in politica, nel contesto pubblico come in quello privato: gli italiani dimostrano di esserne soggiogati se preferiscono essere condotti al macello bendati, trascinati da un citrullo che ogni giorno dimostra con il suo vaniloquio e la sua tracotante quanto vuota prosopopea la sua natura di lacchè, di utile idiota al servizio dell’impero, dopo essersi innamorati di un arricchito grazie a attività criminali. Si affidano in qualità di espressione geografica ormai priva di sovranità e autodeterminazione, a un’autorità artificiale, che combina autoritarismo amministrativo e  burocratico solo apparentemente asettico, con un’indole indirizzata alla cancellazione di democrazia e diritti, anche grazie a muri eretti per difendere  le fortezze delle cancellerie. Molti genitori si aspettano dalla scuola l’assolvimento delle funzioni che spetterebbero a loro. E d’altra parte una scuola sempre più brutalizzata assegna alla collaborazione e alla beneficienza arbitraria delle famiglie la sua sopravvivenza, integrando altri fattori di disuguaglianza e discrezionalità in un contesto già segnato dalle differenze prodotte dalla lotteria naturale e dalle sue estrazioni cieche e crudeli.

E poi non c’è amministratore, dai comuni ai condomini, che non attribuisca i suoi fallimenti alla precedente gestione, ai danni prodotti da chi c’è stato prima, su, su fino alle caverne di Altamira. Per non dire di processi imitativi che assolvono da reati virtuali o materiali, perché così fan tutti, perché familismo, clientelismo e micro-corruzione sono peccati veniali tollerabili e autorizzati in tempi nei quali tutto è labile e precario e è necessario, anzi doveroso difendersi. Anche l’abiura di aspirazioni, la rinuncia a diritti e prerogative, determinata da un regime che ha fatto del ricatto e dell’intimidazione “sistema di governo”, vengono impiegati per liberarsi dall’onere pesante dell’arbitrio personale, libero per quel che resta e ci hanno permesso, ma che dovremmo difendere come un bene prezioso, invece di dismetterlo per esercitare una pretesa di innocenza e una rivendicazione dello stato di vittime, che ci esonerano da scelte e da assunzione di responsabilità. Che deve  riguardare tutti, uomini sessisti o indifferenti o donne fragili o gregarie, ugualmente oppressi dalla stessa cultura patriarcale e dalla stessa morale confessionale che a fronte di una apparente emancipazione da canoni pruriginosi e repressivi, riconduce sessualità e eros alla sfera del peccato, della vergogna, sottoposti al giudizio della gente, alla reprimenda dei benpensanti, alla circolazione delle penitenze nel confessionale dei social network.

Non è colpa della rete se una trentenne fragile pensa che il suo valore sarà misurato dal desiderio che susciterà grazie a un filmato, che abbia una diffusione solo tra intimi, amici di Fb o contatti su Twitter, quando donne e uomini sono sottoposti alle leggi di mercato proprio come merci, le loro qualità sono quantificabili allo stesso modo di quelle di prodotti rari, firmati, esclusivi, come la loro permanenza in vetrina e la loro appetibilità sugli scaffali del grande supermercato. Non è colpa della rete e nemmeno tanto degli imbecilli che la animano se viviamo in una realtà “rappresentata” dove le persone ritengono di aver vissuto e di poter ricordare solo quello che è diventato filmato, immagine, selfie, se riguarda la loro esistenza, mentre assistono a guerre, esodi, eccidi, repressioni, massacri, come se fossero fiction che scorrono in tv, con la pretesa di non parteciparne in alcun modo, senza crederci davvero, grazie alla possibilità di eludere la verità mutuata dal potere, noi, perché non ci faccia male con la sua potenza rivelatrice, i regimi per non svegliarci dall’opportuno letargo.

È giusto provare pena per quella ragazza fragile, ma non sarebbe giusto assolvere la sua incapacità di tutelare la sua dignità di persona, pena la conferma di una “naturale” e biologica debolezza femminile, di una indole alla soggezione e alla gregarietà muliebri, di un istinto di genere a attribuire importanza al giudizio degli altri, a sottomettersi come a un giogo implacabile ineluttabile  a convenzioni, conformismo e perbenismo paesano, a quel “che dirà la gente” che ha portato la mamma di una ragazzina stuprata a praticare un comportamento criminale ispirato a correità, violenza e sopraffazione.

La rete, i social network (Facebook è il continente, sia pure virtuale, più popoloso del mondo) sono pieni di imbecilli proprio come il mondo fuori e dentro casa. Anche di sfruttatori, anche si sopraffattori, anche di violenti, anche di malfattori, come il mondo fuori e dentro casa. E proprio come fuori e dentro casa la soluzione non è nel tirar su muri e confini, nell’imporre bavagli, nemmeno nelle lezioni, auspicate da pensosi commentatori, di educazione digitale, al posto della rimossa educazione civica. Al contrario, consiste nel praticare realtà e verità, invece di rappresentazione e recita, nel riprendersi il gusto di parlarsi invece di esprimersi con smorfie, faccette e con una propaganda di sé fatta di finzione, come fossimo prodotti che si offrono al consumo.  E nel ritrovare il bene della ribellione, della collera, della libertà, anche dello sberleffo e dell’invettiva, che ormai ha circolazione solo nelle catacombe virtuali, prima che, per dispiegare la doverosa compassione per una donna vulnerabile, ci interdicano la possibilità di ingiuriare, come ci spetta e le spetta di diritto, la Boschi.