Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ve l’immaginate Michelangelo che dà una martellata al Mose apostrofandolo: perché non parli? E quello: no, è meglio che mi sto zitto?

Ovviamente mi riferisco non alla mirabile scultura ma ad altra opera, definita da promotori, ammiratori interessati e media, altrettanto mirabile, altrettanto prodigiosa, ma per di più avveniristica, quel formidabile manufatto ingegneristico, il cui acronimo Mose stava a indicare la sua missione di salvare Venezia dalle acque.

Con sfrontata impudenza nei giorni scorsi il Consorzio Venezia Nuova, concessionario del Ministero delle infrastrutture per la realizzazione degli interventi per la salvaguardia della città, ha convocato la stampa perché assistesse alla toccante cerimonia  dello sbarco  delle prime quattro paratoie destinate alla bocca di Malamocco, provenienti dalla Brodosplit di Spalato,  che con opportune cerniere verranno poi agganciate ai cassoni. Un evento simbolico che doveva far dimenticare le notizie filtrate prudentemente nei giorni scorsi, quando si è saputo che il primo test di sollevamento della paratie era fallito, vuoi per via di sabbia e detriti accumulatisi, malgrado si sappia che gli interventi di manutenzione sono valutati in ben 80 milioni l’anno, vuoi per via di “cerniere arrugginite” in un dispositivo che sembra già vecchio, obsoleto e compromesso ancora prima di essere finito. E l’incidente occorso al jack-up, la nave attrezzata costata 50 milioni di euro che non riusciva a navigare.

Chissà quando la grande opera, che il sindaco Brugnaro vorrebbe poi “rivendere” ai cinesi, magari per rifilar loro un prodotto Made in Italy fallato, sarà davvero completata. Quelli del Consorzio rassicurano: si rispetterà la scadenza, ma quale delle tante aggiornate e prorogate?   fissata al 2018. Quello che certamente non sarà rispettato è il preventivo del Mose, nome coniato nel 1988 quando venne presentato trionfalmente alla presenza delle più alte autorità dello Stato e del governo il modello in scala reale di una paratoia, imposto come unica soluzione al problema della alte maree anomale quanto la selezione effettuata per sceglierlo che non prese nemmeno in considerazione alternative praticabili, come d’altra parte si è continuato a fare nei decenni successivi, quando possibili opzioni sono state liquidate come inattuabili, frutto delle  concezioni visionarie di scienziati venuti dalla Laputa dei viaggi di Gulliver o da inventori matti dei fumetti.

E infatti se il progetto di massima prevedeva un costo di 3200 miliardi di vecchie lire (circa un miliardo e mezzo di euro) oggi siamo arrivati a 6 miliardi, gestione e manutenzione esclusa. Una bella cifra nella quale sono delicatamente omesse le voci relative alle altre “opere” collegate e funzionali, quelle della mostruosa macchina di corruzione, malaffare, aggiramento di regole, un prodigio, quello sì, dell’ingegneria dell’illegalità, quel pentolone mefitico scoperchiato da inchieste in corso che procedono con ritmi che fanno ben sperare alle personalità interessate, già ampiamente reclutate in altre cordate attive, nella benefica e fisiologica prescrizione.

Certo sarebbe stato bello che anche per questo “sistema”, così perfetto da diventare un format replicabile, ci fosse stato il dispiegarsi della vocazione investigativa che il nostro giornalismo ha mostrato in questi giorni nel caso del Comune di Roma, l’analogo rispetto del mandato di indagare e informare cui assistiamo. Invece intorno alla poderosa realizzazione  da subito c’è stato un convergere estasiato di agiografi del genio creativo italico, pronti a giurare sulla efficacia del prodotto Made in Italy, intenti, anche prima che il tacitare ogni perplessità anche dei tecnici diventasse sistema di governo, a dileggiare e irridere preoccupazioni e dubbi di professoroni gufi e disfattisti. Perfino ora che anche a occhi profani dovrebbe sembrare evidente che un intervento e tecnologie approvate nel 1988 potrebbe essere superate, invecchiate, sorpassate e probabilmente inadeguate anche a fronte di tremendi, e molto annunciati quanto rimossi, cambiamenti climatici.

 E altrettanto sobriamente silenziosa è stata l’opposizione, al Caf, fronte dal quale è sortito tutto l’impianto della salvaguardia tramite Mose, ai governi del dopo Tangentopoli, ai più recenti se nel 2013, dicastero Letta,  alla presenza del Ministro Lupi si è officiata una di quelle liturgie che piacciono alla seconda repubblica quanto alla prima, l’ennesima inaugurazione di un po’ di “roba” da mostrare in giro e se nel Def 2015 c’è uno stanziamento di 221 milioni destinati a opere complementari.

Il fatto è che non occorreva essere ingegneri idraulici per sollevare delle perplessità. E non serviva nemmeno militare delle file dei garantisti a intermittenza per preoccuparsi della struttura messa in piedi per gestire gli interventi prescritti dalla legge per salvare Venezia.

Bastava interrogarsi sulla natura del soggetto incaricato, quel concessionario, un vero mostro giuridico, cui fanno capo progettazione, gestione, realizzazione e infine controllo del Mose, quel Consorzio Venezia Nuova alla cui presidenza si sono avvicendati in forma bipartisan quello che oggi è capogruppo al Senato del Pd, poi Franco Carraro, onusto della gloria di Grandi Eventi, poi un banchiere-economista, Savona, infine il papà – così si definiva- del Mose, l’ingegner Mazzacurati, a “coordinare” una corazzata di imprese, dalla quale si sfila l’Impregilo ma nella quale resta quale maggiore azionista la Mantovani Spa, in auge anche grazie ai suoi manager fin dalla Prima Repubblica, un nome che ritorna di continuo in tutti i lavori in Laguna e nel Veneto: strade e autostrade, passanti, tram, bonifiche, rigassificatori, ospedali, inceneritori, darsene, operazioni immobiliari e, perché no? un’influente partecipazione agli azionariati delle stesse opere nelle quali si è prodigata.

Sarebbe bastato questo a suscitare qualche sospetto anche prima dell’intervento dei Pm. Sarebbe bastato osservare quanto ci fosse di forzato e incongruo nell’affidare a un soggetto unico, malgrado la ferma opposizione della Corte dei Conti, compiti decisionali e progettuali, competenze nella gestione e nella realizzazione, funzioni di sorveglianza e controllo, secondo l’immaginifica, originaria visione concettuale di un ministro, Nicolazzi, che verrà condannato nel corso di una inchiesta di Mani Pulite, ma che ha fatto scuola, forse proprio per questo.

Perché il Mose non è solo un modello idraulico. E’ il format esemplare cui si è guardato per tutte le operazioni di malaffare cresciute in quel limo rappresentato prima ancora che dalla pratica di corruzione, dalla corruzione delle leggi, piegate a interessi privati, promosse per favorire rendite e speculazioni, segnate dall’eccezionalità di emergenze nutrite per legittimare regimi speciali, commissari straordinari, deroghe e licenze. E non c’è da stupirsi, pare che le grandi fortune italiane vengano e crescano dal fango.