Anna Lombroso per il Simplicissimus

C’è voluto poco, troppo poco per togliere da quelle mutrie sopraffatte dalla sconfitta, peraltro prevedibile, la sorpresa, la frustrazione e lo sdegno per il tradimento patito, la negazione impossibile degli eventi. C’è voluto poco, troppo poco perché sul grugno ringhioso della Meli, sulla maschera cinica di Romano, sul ceffo opaco di  Migliore tornasse il ghigno impudente e sbiadissero le cinque dita, purtroppo solo simboliche, assestate al loro ducetto e di riflesso anche a loro.

E dire che in parte anche per godercela la loro paura, per compiacerci del loro spaesamento  e dei loro balbettii  perfino nelle cucce protettive dei talkshow, in tanti avevamo votato 5Stelle, pur non sentendo nessuno spirito di appartenenza con il movimento.

Mica per vendetta, peraltro più che legittima. E’ che così si tagliava una rete di poteri, tutto variamente criminali, perché non c’è altro modo per definire gli opachi interesse coincidenti di costruttori, finanza,  malavita, speculatori, politica e pubblica amministrazione, quelle alleanze oscene che hanno devastato Roma, cementificato l’Agro romano, edificando interi quartieri senza trasporto su ferro e senza servizi, innalzando cinture di centri commerciali che richiamano traffico e avviliscono il commercio e l’artigianato tradizionale, condannando alla definitiva emarginazione interi quartieri periferici retrocessi a ghetti ove trovano asilo disperazione, malessere e conflittualità.

Ma perché i sindaci del Pd hanno dimostrato di voler essere entusiasti esecutori a livello locale, delle scelte e dei comandi che ispirano l’azione del governo, dal neoliberismo applicato alla pianificazione sicché l’urbanistica è diventata una scienza della contrattazione e   della negoziazione commerciale su suoli, destinazioni d’uso, rendite, con l’esaltazione del ruolo dei privati, che ispira la cessione del patrimonio immobiliare pubblico, la passione irriducibile per le grandi opere, la progressiva trasformazione in parchi a tema a destinazione turistica e circense dei centri storici, con sottrazione progressiva degli spazi abitativi per consolidare una sedicente vocazione alberghiera, alla riduzione degli investimenti per assistenza, istruzione, servizi, anche quelli soggetti a impoverimento anche morale, a pratiche clientelari e familistiche, in modo da autorizzare la benefica cessione al controllo e alla gestione di soggetti privati.

Non c’è voluto un granché perché si concedesse alla miserabile cerchia di governo di poter rivendicare: “l’avevamo detto” che governare è difficile, che ci voleva gente pratica, mica dilettanti, insomma che occorre un ceto di quella risma che rottama modi e uomini della politica,   per sostituirli con superiore e già navigato cinismo, con maggiore e collaudata spregiudicatezza. E   con che serve competenza, quella rappresentata da ubbidienza a padroni interni e sterni, da fidelizzazione ideologica e operativa a ideologie aziendalistiche, dalla sfrontata vocazione a prodigarsi per interessi privati in grado di fornire foraggio per ronzini sempre pronti a tornare alle stalle padronali, quella delle Boschi, delle Madia, dei Faraone, dei Galletti, dei Poletti, gente che non conosce lavoro, che non possiede talento, che non coltiva passioni se non quella del potere e dei soldi.

E purtroppo il gruppo che gravita intorno alla Raggi ci ha messo del suo, con una “normalizzazione” punteggiata di errori, scelte discutibili, approssimazione, incapacità di fronteggiare ostilità prevedibili e una infantile fragilità nel sottovalutare il tremendo peso del passato e quello ancora più terribile del futuro di una città in fallimento, degradata, disordinata, sporca, dove hanno fatto il buono e il cattivo tempo potentati irriducibili, padroni di suoli, territori, quartieri, giornali, falansteri, chiese, parrocchie, palazzi, stadi. E nella gregarietà al direttorio, nell’interruzione del rapporto sia pure così labile e illusorio con l’elettorato, nella incapacità di reagire con forza anche simbolica alle accuse di essere venuti meno alla “specialità” del movimento, quella differenza morale che tanto li aveva premiati, provenienti da pulpiti poco credibili, trombati affetti da grillismo di risulta, garantisti a intermittenza, detrattori di Marino che lo rimpiangono, media che si dedicano al giornalismo investigativo su colpe e correità dopo aver subito per decenni l’imposizione a tacere su consulenze d’oro, tecnici sleali, dirigenti malleabili, uffici stampa sibaritici e attenti a non far sapere nulla e a prosciugare i canali dell’accesso alle informazioni del pubblico, capi di gabinetto ragionevolmente remunerati ma che sbagliano i bandi per la selezione dei comandanti dei vigili.

Dovrebbero però riflettere bene quelli già pronti a saltar giù dal carro cigolante dei vincitori, ora ridotti in catene, che si tratti di gente facilmente permeabile alla delusione cotta e mangiata un tanto al chilo, o di chi è talmente avviluppato in pregiudizi di casta, quella di una sinistra immaginaria e mai tenacemente perseguita negli atti e nei comportamenti, particolarmente amata perché richiede una militanza davanti al desk e non obbliga a prendere gli autobus, occupare una casa perché ci sono migliaia di alloggi vuoti ma “indisponibili” per precari, disoccupati, licenziati, cassintegrati, invalidi, immigrati, a stare con la monnezza davanti al portone, perché il molto rimpianto marziano ha fatto dell’ottima propaganda senza risolvere il problema,  a subire ogni giorno i tagli all’assistenza, a cominciare da quella per portatori di handicap, anziani e minori. O invece di quelli che non  vogliono vedere come il Pd abbia ormai tagliato ogni legame con la cittadinanza, riportando su scala quella distanza siderale che ha reso moleste le elezioni, la partecipazione, la democrazia. O si tratti di strati non poi così esigui di gente che ha un interesse, magari micragnoso, magari infimo, nel mantenimento dello status quo, nel riconoscersi in un ceto dirigente, che ha sostituito la ricerca del consenso con il ricatto, l’intimidazione, la soppressione di diritti e garanzie per tutti,  compresi quelli che ne mutuano abitudini e usi, dalla corruzione esercitata o subita, alla vigenza e diffusione di licenze e deroghe,  dal clientelismo, al familismo, concessi ma in piccole dosi e non sempre efficaci a salvarsi.

Perché la voluttuosa esultanza con la quale spettatori non paganti assistono alle acrobazie di una giunta sul filo e senza rete ha qualcosa di osceno e al tempo stesso terribile, come un suicidio rituale. Perché a pagare è una città, forse la più bella del mondo e la più sciagurata, la sua gente, quelli che ha accolto e quelli che ora mette ai margini, quelli che guardano a lei come a un prodigio del passato, tradito e dimenticato. Perché l’accanimento interconfessionale che si sta esercitando produce una pressione infame sul Comune, privandolo della forza e delle ragioni per dire no alle olimpiadi, affidate chiavi in mano al padrone del Messaggero, allo Stadio della Roma,  all’accettazione senza discussione di nefaste eredità del passato, dalla metro C, la madre di tutti gli intrallazzi, a una gestione del territorio fatta di deroghe, azioni estemporanee, emergenze artificiali gonfiate per consentire licenze e regimi speciali.

Perché è questo il male del nostro tempo: l’uso della crisi, dei bilanci pubblici fallimentari sono diventati strumenti di governo, dell’economia e del sistema politico e sociale, con la precarizzazione, la deregolamentazione, la strumentalizzazione del debito per imporre la cancellazione di sovranità, diritti e garanzie, lo smantellamento dello stato sociale, lo sgretolamento di legami e coesione. Succede in America Latine, è successo in Grecia, comincia a succedere i Germania e succede da noi, anche nelle città dove il  blocco composto dall’oligarchia post democratica,  dagli attori finanziari, dalle imprese fiduciarie delle multinazionali, dai grandi media, dalla criminalità occupa tutto, tramite alleanze di interessi che potevano essere differenti ma che sono diventati sempre più convergenti.

L’intimidazione e la derisione al governo di una città, eletto dai cittadini, fa parte del loro gioco e della loro propaganda. Dovremmo aiutare Roma a dir loro di No, oggi, domani, come dobbiamo fare e faremo tutti noi.