Anna Lombroso per il Simplicissimus

A volte prende uno scoramento così amaro che l’unica sarebbe “buttarla in vacca”, che certe iniziative non meritano l’eleganza del “o si feconda o si muore” di Woody Allen e nemmeno la saggezza popolare de “u cazz nun vole pensieri”, che è perfino troppo banale dire che insieme a tutto il resto ci hanno tolto anche la voglia di far l’amore  figuriamoci di procreare.

C’è poco da sorridere di una  pensata di pura stoffa nazi fascista:  in attesa di dare le fedi d’oro alla patria magari per finanziare il contrasto al terrorismo e comprare un po’di bombardieri, si mettono le basi per fornire all’impero un po’ di carne, da cannoni o da lavoro che sia. C’è poco da sorridere che sistemi persuasivi così miserabilmente nostalgici si riscattino dal vecchio regime per approdare in quello nuovo e  trionfalmente, grazie a anglicismi da Nando Mericoni, già sdoganati in forma bipartisan dal Family Day, dal Very Bello, da Rome & You, aspettando il probabile Oh Yes del referendum.

E con una campagna così arcaica nei motti e nelle icone,  che pare pensata da un oscuro funzionario del MinCulPop ignaro delle tecniche subliminali e illustrata da un Boccasile redivivo, così mediocre che da suscitare sconcerto perfino nella stampa solitamente sottomessa, salvo nel caso di qualche Appelius che non si vergogna di dare la parola alla ministra in modo che esponga le sue ragioni.  Non di mamma attempata a concreta dimostrazione che si tratta dell’ennesimo manifestarsi di quella sindrome che potremmo definire del Grillo, lei è lei e noi non siamo un cazzo, sicché tutto quello  che è autorizzato, concesso, esercitato in regime di monopolio esclusivo per il ceto dirigente, quando invece riguarda noi, le nostre esistente, i nostri diritti, le nostre scelte e le nostre inclinazioni è osteggiato, deplorato, condannato. Macché, gli intervistatori doverosamente proni, ginocchioni davanti alla madonnina del parto recente, le porgono la battuta in modo che esibisca la sua concezione specialistica di ministro competente, che ha voluto entrare solo nel merito degli aspetti sanitari della questione, per carità, nel rispetto delle convinzioni delle persone e della loro libertà, per dispiegare una pedagogia indirizzata alla prevenzione delle brutte malattie,  alla promozione di misure per promuovere il sesso sicuro, perfino di fecondazione.

C’è poco da sorridere anche di un’opinione pubblica talmente soggetta a condizionamenti spettacolari e mediatici, che si indigna con un paio d’anni di ritardo – i primi annunci della campagna per la fertilità risalgono alla sconcertante nomina a partire dal 2014 e il Piano Nazionale è del maggio del 2015 – solo quando appaiono le cartoline e si proclama la celebrazione del giorno fatidico. Mentre ogni giorno bisognerebbe andare a protestare sotto le finestre della signora, pur nel timore di disturbare la sua montata lattea speciale e esclusiva, per via delle sue esternazioni in materia di aborto, fecondazione, matrimoni omosessuali, adozioni, accoglienza degli immigrati, scuola e ricerca pubblica, ma ancora di più per il fatto di prestarsi a fare da kapò entusiasta per la soppressione di assistenza, cura, stato sociale.

Ora si dirà che è solo una sciocchina,  ignorante e ottusa, che magari si sente investita dell’alto compito di contrastare il meticciato che minaccia la’Europa, l’islamizzazione che contaminerebbe le nostre radici cristiane. Che non desta preoccupazione una che non è nemmeno una maestrina, perché pare che i suoi studi si siano fermati prima ancora di possedere i requisiti per accedere a una professione di utilità sociale, quindi perfetta per ricoprire un ruolo autorevole in un governo che quando si parla di interesse pensa a quello provato e possibilmente al suo, e se sente dire sociale imbraccia il mitra, che impartisce una lezioncina sotto dettatura. Ed è certamente così.  Il  compitino nel quale si è prodigata è così banale e ordinario, che lo sono altrettanto le obiezioni spontanee, così ovvie che le  potrebbe pronunciare perfino l’Istat:  si fanno meno figli perché c’è la crisi; assistiamo a uno spostamento in avanti dei tempi e delle scadenze esistenziali; non c’è lavoro, non c’è indipendenza economica, non ci si può permettere una casa e figuriamoci una famiglia; è stata promossa una sospensione di conquiste e diritti per cui spesso le donne devono sottoscrivere un patto scellerato, anche se bilaterale quanto illegale, di rinuncia alla maternità; gli orari sono rigidi e non aiutano i genitori che devono e vogliono accudire la prole; non esistono servizi se non  a pagamento.

Il fatto è che c’è una ideologia, c’è un modello che fanno da suggeritori all’improvvida stupidina, che hanno scelto la riprovazione pubblica per ingerirsi in scelte che non sentiamo nemmeno più come private e personali tanto sono invece condizionate dalla perdita di beni, di futuro, di stabilità, di garanzie e di diritti, perfino di desideri, che condannano, e non a caso, chi vorrebbe vivere compiutamente le proprie aspettative, i propri talenti, le proprie vocazioni e inclinazioni, cercando a fatica di conciliare sfera affettiva, ambizioni e desiderio di realizzazione   appagante. Perché c’è un disegno nel rendere impossibile quell’equilibrio. Ormai non si tratta nemmeno più di imporre la scelta tra carriera e maternità, tra casa e posto:  in una società, in una civiltà superiore che non teme confronti e che vuole trasformare i cittadini in eserciti di schiavi sottomessi che devono spostarsi secondo i comandi di generali-padroni, le persone che cercano equilibrio, compatibilità tra diritti e desideri, felicità e affermazione di sé, sono collocate tra gli indesiderabili. Ormai alle donne  non viene più concessa la parvenza dell’alternativa, l’illusione dell’opzione: alla guerra, al lavoro, alla caccia, ci vanno i maschi. A noi è dato il dono della procreazione, come un benigno segno divino, come una gratificazione generosa della natura, restiamo dunque nelle caverne, come è doveroso per le femmine della specie, come vuole il nostro destino biologico. E allora a Altamira e ovunque, non ci resta che impadronirci della clava.