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Catene del burkini e imbecilli senza veli

Burkini-561794Nelle settimane scorse ho evitato come la peste di parlare di burkini, sapendo benissimo che non sarei riuscito a contenere la rabbia e il disprezzo per lo pseudo femminismo da generone italiano che vedevo aprirsi sotto l’ombrellone delle piccole Atene da spiaggia. E poi francamente non mi andava di mettere le mani nella piaga del rincoglionimento de sinistra, pronta a portare acqua alle sacrosante ragioni della destra balneare francese e del pied noir Valls,  preda di una vacua e ambigua ignoranza sulle cui acque navigano le barchette del consenso marginale. L’idea che uno stato possa vietare la libertà di vestirsi in nome della liberazione di genere è in sé grottesca, storicamente ridicola, politicamente  miserabile.

Se si vuole liberare qualcuno gli si deve insegnare la cultura e il gusto della libertà, non si può metterlo in catene perché impari. E chi lo fa ha altrettanto da imparare dei supposti e obbligati discepoli, anzi ha così poco da dire e da insegnare, può essere così poco da esempio da dover intervenire per divieti e per castighi. E non ci vuole molto per capire che dietro le alate considerazioni si nasconde solo una xenofobia e un suprematismo di fondo che il bon ton esige di reprimere, ma che si scatena non appena ha l’occasione di apparire decente. Per fortuna Il Consiglio di Stato francese ha tirato la catena su tutto questo e ha stabilito che i divieti di burkini apparsi in qualche arenile dell’ Hexagone “violano gravemente, e chiaramente in modo illegale, le fondamentali libertà di andare e venire, la libertà di credo e la libertà individuale”. Magari non piacerà alle damazze che al mare non si abbronzano più, ma prendono una tintarella bianca bianca, però ahimè ci si può vestire come si vuole, non si può accettare il principio della libertà religiosa se poi se ne negano i simboli e le usanze.  O vogliamo strappare alle bambine le medagliette della prima comunione?

Quello però che in tutto questo mi aveva colpito particolarmente era la singolare idea che il mostrare invece che nascondere sia una sorta di funzione  biunivoca e di oggettivazione della liberazione femminile ed entri a pieno titolo nelle considerazioni della parità di genere: ma questo può avere una qualche apparente verosimiglianza solo per quanto riguarda i due secoli borghesi con le restaurazioni e il vittorianesimo , ma in senso generale la correlazione fra abiti femminili e subalternità agli uomini è molto debole, anzi inesistente. Il due pezzi era usato in epoca imperiale romana anche nelle terme, gambe nude e seni prosperosi non erano certo rari, anche il peso sociale ed economiche delle donne diminuiva insieme alla quantità di stoffa. Per non dire che tra la fine dei Seicento e per quasi tutto il Settecento in ogni parte d’Europa e in particolare a Venezia il seno era praticamente scoperto, mentre le gonne avevano spacchi vertiginosi: ma non è affatto che le donne fossero meno soggette. Il vizio di assolutizzare la nostra esperienza non ci fa nemmeno capire come anche le mode più coperte con le gonne lunghe e amplissime che terminavano in vitini di vespa e seni appositamente ingranditi erano semplicemente una diversa interpretazione del corpo femminile, come del resto le calzamaglie rinascimentali e seicentesche appannaggio inatteso degli uomini.

Di fatto però, questo è interessante, la differenza sostanziale tra abiti maschili e femminili a eterno disdoro dei film in costume, comincia a manifestarsi in ambito occidentale solo tra la metà del ‘200 e nel corso del ‘300  in contemporanea con la nascita del capitalismo: è da allora che per la prima volta vagisce la moda e dunque la mania di cambiare vertiginosamente fogge e colori degli abiti, sia pure con una velocità consona ai mezzi del tempo. Naturalmente tutto questo è appannaggio delle classi dominanti, ma finisce per avere il suo riflesso anche tra i ceti popolari urbanizzati: è in quel periodo infatti che rinacquero le leggi suntuarie le quali avevano avuto  il loro splendore nella Roma repubblicana investita da immense ricchezze che si voleva impedire di ostentare e contro le quali le matrone romane combatterono dure battaglie anche se più centrate sui gioielli che sugli abiti: la prima organica fu quella bolognese del 1278, voluta dal legato pontificio Latino Malebranca  che vietava gli strascichi troppo lunghi e imponeva il velo in chiesa con relative risse tra la gente e i controllori papalini. Altrove addirittura si protestava pubblicamente: il cronista veneziano Marin Sanudo narra nei suoi diari che nel 1499 alcune nobili veronesi, frustrate nel loro desiderio di nascondersi ancora di più  tra stoffe costose, fecero apporre sui muri scritte ingiuriose del tipo: “bechi fotui no vedè quelo che gavè in casa”. Ma regole e norme di vario tipo si attagliavano anche agli uomini perché sebbene in epoca medioevale e successivamente controrifomista gioielli e ricche stoffe fossero considerati dalla Chiesa sintomo di eccessivo attaccamento alla pompa terrena, in realtà miravamo come quelle di quasi 1500 anni prima a rendere meno evidenti le differenze di classe e dunque a sedare per quanto possibile le lotte e le ribellioni che erano molte e feroci, anche se a scuola non ce lo dicono.

Tutto questo non ha quasi nulla a che vedere con liberazione femminile e anzi sembra quasi in relazione con la sottomissione femminile, quasi una compensazione indiretta. C’è invece una correlazione evidente tra la gestione del vestire e il capitalismo che di certo vede di traverso gli abbigliamenti tradizionali non abbastanza dinamici per il mercato e qualche volta portatori di culture ad esso ostili. Pensare di liberare le donne musulmane semplicemente strappando il velo e mostrando quale progresso sia  smutandarsi un po’, sa di ridicolo e puzza di atelier, non ha il gusto di libertà, ma di sottomissione al mercato che è un vocabolo tutto al maschile come dimostra anche il fatto che esso è il maggior utilizzatore finale del corpo femminile. E questo passi, ma si può sopportare un imbecille fatto e finito che scrive sulla meravigliosa stampa all american boy di casa nostra: “si inizia con l’accettare il burkini e si finisce con il trangugiare la schiavitù”? Che idea grandiosa : che si stia diventando schiavi non c’è dubbio, ma che sia il burkini lo strumento che forgia le catene mi giunge nuovo.Una vera fortuna che nei giornali si aggirano intelligenze tanto acute, cuori così limpidi, che ci indicano la strada da seguire.

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